venerdì 16 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/222: il mondo è una finestra affacciata su un oceano di stelle e tempo


questa Cronaca è dedicata ai miei nipoti Andrea e Marco


Quando la terra diventa piccola e muta, sgomenta come in questi giorni, ancora più del solito mi perdo a guardare il cielo.

Il cielo nuvoloso dell’autunno, dai colori spenti e dalle nuvole pallide. Il cielo notturno, dove le stelle brillano e respirano come un unico cuore nella vasta distesa che ci avvolge.

Guardo il cielo e mi stupisco ogni volta della sua immensità e della nostra lillipuziana presenza in questa realtà, in questo mondo e su questo pianeta.

 

Noi che conosciamo il vero nome delle rose

 

 

Dalla mia finestra guardo il mio

mondo, molti alberi, vecchi

palazzi, un quarto di cielo spesso

solcato da nuvole e qualche

volta illuminato da rade stelle.

 

Le guardo e guardo ancora e

capisco che tutto il mondo,

tutto questo nostro mondo,

non è che un’unica finestra

affacciata sull’infinito universo

e sull’eternità e il tempo che

noi non possiamo contare se

non con le nostre povere, umili

coordinate che segnano una

nascita e un arco che taglia

questa eternità e la chiude

col nome del nostro ultimo

giorno, col nostro ultimo

sguardo verso quel cielo.

 

Mi consola pensare che l’atto

del cadere appartiene solo

alle creature e alle cose che

hanno vissuto: foglie, gocce di

pioggia, stelle e noi per ultimi

che conosciamo il vero, vero

nome di tutte, proprio tutte,

le rose.

 

 

Questo è il “sentimento oceanico”, così come lo definiscono lo scrittore francese Romain Rolland e il filosofo Pierre Hadot che ne racconta in un libro magnifico che mi attendeva da anni negli scaffali della mia libreria:

“Le cose sono cambiate con l'adolescenza. Del resto, per lungo tempo ho avuto l'impressione di essere venuto al mondo solo a partire dal momento in cui sono diventato adolescente e rimpiangerò sempre di avere buttato via, per umiltà cristiana, le prime note scritte che erano l'eco della mia personalità nascente, perché mi è difficile adesso ricostruire il contenuto psicologico delle scoperte sconvolgenti che ho fatto allora. Mi ricordo però il contesto. Successe una volta nella rue Ruinart, lungo il tragitto tra il Seminario minore e la casa dei miei genitori, dove rientravo tutte le sere, essendo allievo esterno. Era calata la notte e le stelle brillavano in un cielo immenso. A quell'epoca si poteva ancora vederle. Un'altra volta accadde in una stanza di casa nostra. In entrambi i casi fui invaso da un'angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del Tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come: «Chi sono?» «Perché sono qui?» Provavo un senso di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte, e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d'erba fino alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo, questa impressione di appartenenza al Tutto, era ciò che Romain Rolland ha chiamato il «sentimento oceanico». Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell'esistenza, dell'essere al mondo. A quell'epoca non sapevo come esprimere ciò che provavo, ma sentivo il bisogno di scrivere e mi ricordo molto chiaramente che il primo testo che ho scritto era una sorta di monologo di Adamo che scopre il suo corpo e il mondo circostante. A partire da quel momento, ho sentito di essere distante dagli altri, poiché non potevo concepire che i miei compagni o addirittura i miei genitori o i miei fratelli potessero immaginare cose simili. Solo molto più tardi ho scoperto che molte persone hanno esperienze analoghe, ma non ne parlano. Ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. Il cielo, le nuvole, le stelle, le «sere del mondo», come dicevo a me stesso, mi affascinavano. Sporgendomi dalla finestra a testa in su, guardavo il cielo notturno, con l'impressione di immergermi nell'immensità stellata. Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. L'ho provata di nuovo, molte altre volte, ad esempio davanti delle Alpi dalle rive del Lemano a Losanna, o da Salvan, nel Vallese. Questa esperienza è stata anzitutto per me la scoperta di qualcosa di emozionante e affascinante che non era assolutamente legato alla fede cristiana. Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso, ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia: ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo. Da allora ho percepito molto fortemente l'opposizione radicale che esiste tra la vita quotidiana, che viene vissuta in una semincoscienza, in cui siamo guidati dagli automatismi e dalle abitudini, senza essere consapevoli della nostra esistenza nel mondo, e quegli stati privilegiati nei quali viviamo intensamente e abbiamo coscienza del nostro essere al mondo”.

Questa sera vi saluto con le parole di un filosofo e vi auguro che dalla vostra finestra possiate perdervi in un cielo stellato.

La Cronaca 222 è frutto di venerdì 16 ottobre dell’anno senza Carnevale. La poesia Noi che conosciamo il vero nome delle rose è mia ed è inedita. La citazione è tratta dal libro di Pierre Hadot La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, traduzione di Anna Chiara Peduzzi e Laura Cremonesi, Einaudi 2008.


 

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