questa Cronaca è dedicata ai miei nipoti Andrea e Marco
Quando la terra diventa piccola e muta, sgomenta come in questi giorni, ancora più del solito mi perdo a guardare il cielo.
Il cielo
nuvoloso dell’autunno, dai colori spenti e dalle nuvole pallide. Il cielo
notturno, dove le stelle brillano e respirano come un unico cuore nella vasta
distesa che ci avvolge.
Guardo il cielo e mi stupisco ogni volta della sua immensità e della nostra lillipuziana presenza in questa realtà, in questo mondo e su questo pianeta.
Noi che conosciamo il vero nome delle rose
Dalla mia
finestra guardo il mio
mondo, molti
alberi, vecchi
palazzi, un
quarto di cielo spesso
solcato da
nuvole e qualche
volta
illuminato da rade stelle.
Le guardo e
guardo ancora e
capisco che
tutto il mondo,
tutto questo
nostro mondo,
non è che
un’unica finestra
affacciata
sull’infinito universo
e
sull’eternità e il tempo che
noi non
possiamo contare se
non con le
nostre povere, umili
coordinate
che segnano una
nascita e un
arco che taglia
questa
eternità e la chiude
col nome del
nostro ultimo
giorno, col
nostro ultimo
sguardo
verso quel cielo.
Mi consola
pensare che l’atto
del cadere
appartiene solo
alle
creature e alle cose che
hanno vissuto:
foglie, gocce di
pioggia,
stelle e noi per ultimi
che
conosciamo il vero, vero
nome di
tutte, proprio tutte,
le rose.
Questo è il
“sentimento oceanico”, così come lo definiscono lo scrittore francese Romain
Rolland e il filosofo Pierre Hadot che ne racconta in un libro magnifico che mi
attendeva da anni negli scaffali della mia libreria:
“Le cose sono cambiate con l'adolescenza. Del resto, per lungo tempo ho avuto l'impressione di essere venuto al mondo solo a partire dal momento in cui sono diventato adolescente e rimpiangerò sempre di avere buttato via, per umiltà cristiana, le prime note scritte che erano l'eco della mia personalità nascente, perché mi è difficile adesso ricostruire il contenuto psicologico delle scoperte sconvolgenti che ho fatto allora. Mi ricordo però il contesto. Successe una volta nella rue Ruinart, lungo il tragitto tra il Seminario minore e la casa dei miei genitori, dove rientravo tutte le sere, essendo allievo esterno. Era calata la notte e le stelle brillavano in un cielo immenso. A quell'epoca si poteva ancora vederle. Un'altra volta accadde in una stanza di casa nostra. In entrambi i casi fui invaso da un'angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del Tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come: «Chi sono?» «Perché sono qui?» Provavo un senso di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte, e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d'erba fino alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo, questa impressione di appartenenza al Tutto, era ciò che Romain Rolland ha chiamato il «sentimento oceanico». Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell'esistenza, dell'essere al mondo. A quell'epoca non sapevo come esprimere ciò che provavo, ma sentivo il bisogno di scrivere e mi ricordo molto chiaramente che il primo testo che ho scritto era una sorta di monologo di Adamo che scopre il suo corpo e il mondo circostante. A partire da quel momento, ho sentito di essere distante dagli altri, poiché non potevo concepire che i miei compagni o addirittura i miei genitori o i miei fratelli potessero immaginare cose simili. Solo molto più tardi ho scoperto che molte persone hanno esperienze analoghe, ma non ne parlano. Ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. Il cielo, le nuvole, le stelle, le «sere del mondo», come dicevo a me stesso, mi affascinavano. Sporgendomi dalla finestra a testa in su, guardavo il cielo notturno, con l'impressione di immergermi nell'immensità stellata. Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. L'ho provata di nuovo, molte altre volte, ad esempio davanti delle Alpi dalle rive del Lemano a Losanna, o da Salvan, nel Vallese. Questa esperienza è stata anzitutto per me la scoperta di qualcosa di emozionante e affascinante che non era assolutamente legato alla fede cristiana. Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso, ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia: ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo. Da allora ho percepito molto fortemente l'opposizione radicale che esiste tra la vita quotidiana, che viene vissuta in una semincoscienza, in cui siamo guidati dagli automatismi e dalle abitudini, senza essere consapevoli della nostra esistenza nel mondo, e quegli stati privilegiati nei quali viviamo intensamente e abbiamo coscienza del nostro essere al mondo”.
Questa sera vi saluto con le parole di un filosofo e vi auguro che dalla vostra finestra possiate perdervi in un cielo stellato.
La Cronaca
222 è frutto di venerdì 16 ottobre dell’anno senza Carnevale. La poesia Noi che conosciamo il vero nome delle rose
è mia ed è inedita. La citazione è tratta dal libro di Pierre Hadot La filosofia come modo di vivere.
Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, traduzione di Anna
Chiara Peduzzi e Laura Cremonesi, Einaudi 2008.
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