martedì 27 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/233: parla per me, silenzio, ch'io non posso

 


Siamo un bosco, un bosco immenso dove convivono alberi ad alto fusto, sempreverdi, conifere, ulivi, querce, betulle, aceri, faggi, ontani, frassini e via elencando.

Lo so, un bosco del genere non esiste nella nostra realtà. Ma io sto immaginando e immagino che nel bosco ci siano alberi forti e sani, ben radicati nella terra, e ci siano anche alberi giovani, che si lasciano cullare e strapazzare dal vento e non vedono l’ora di essere abbastanza alti per guardare oltre il limite di questa foresta. 

Poi ci sono alberi che tremano nel vento, salutano le ultime foglie e faticano a salutare la pioggia e le nuvole, alcuni sono rassegnati, altri vorrebbero tempo, un po’ di tempo ancora.

Ma il tempo rimasto non lo scegliamo, il tempo finisce, il filo viene tagliato. Atropo adempie al compito che le è stato assegnato e in un attimo non finisce solo la vita di chi non c’è più, cambia la vita di tutti quelli che gli stanno intorno, la vita di chi lo aveva o l’aveva amato e amata.

Nella mia foresta immaginaria oggi camminano i fantasmi di chi è stato abbattuto dal Covid, e da altra patologie che sono passate in secondo piano, e da chi lo sarà a breve. La lotta interiore per imparare ad accettare che ci sono eventi su cui non possiamo intervenire, credo attanagli la maggior parte di noi.

Su Facebook, come già accadde in marzo, leggo gli interrogativi di chi si chiede se sia giusto chiudere tutto, mettere in ginocchio l’economia, costringere i giovani a starsene chiusi in casa, i lavoratori indispensabili a continuare a uscire, gli smart workers a starsene in casa pure loro.

Tutti senza altra socialità al di fuori della famiglia, chi ce l’ha, e senza un orizzonte di senso che ci permetta di riprendere fiato. C’è chi si chiede se salvare qualche migliaio di vite di anziani abbia senso visto che la contropartita è il crollo della società.

Le cose sono, come sempre, molto più complesse delle semplificazioni cui i social ci hanno abituato. Su Repubblica odierna Michele Serra pubblica l’articolo “Nonni contro nipoti, le generazioni divise dalla pandemia” dove smonta la tesi, volgare e stupida, che i giovani siano depressi perché costretti a restare a casa dai vecchi e che i nonni muoiano a causa dei nipoti.

Questa semplificazione è dannosa per la nostra psiche individuale e per quella collettiva.

È vero che non siamo tutti sulla stessa barca, ma è vero che navighiamo tutti in questo stesso mare e che i primi obiettivi, di nuovo come nella scorsa primavera, siano la salvaguardia e la cura delle persone, impedire il collasso del sistema sanitario e di quello economico. Sono coerenti il coprifuoco notturno e la chiusura dei locali e ristoranti di sera? Non sarebbe più sensato diversificare gli orari a seconda delle regioni e delle città? Milano e la Lombardia continuano a essere i territori più colpiti. Nella mia zona da una decina di giorni ho ricominciato a sentire le sirene che squarciano l’aria a qualunque ora. Altre persone nel giro di colleghi, amici e conoscenti mi hanno raccontato di essere ammalate, alcuni di avere perso un genitore.

Concordo con Serra che chiude il suo articolo ricordandoci “che il lutto ci chiede di parlare a voce bassa”, ma riusciamo a farlo solo quando la persona morta non la conosciamo.

Perché quando muore qualcuno a cui vogliamo bene, dalla nostra bocca non escono parole ma singhiozzi e lamenti. Questa mattina ho saputo che è morto ieri un caro e vecchio amico, l’epistemologo Mario Galzigna. Ci conoscevamo dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso ed eravamo subito diventati amici. Era un grande intellettuale, epistemologo e studioso di Foucault, brillante, intelligente, penna raffinata, musicologo e anche cantante, con una voce fuori dal comune. I ricordi, le conversazioni, tutto mi ritorna in mente in questo giorno luttuoso.

La collaborazione e l'amicizia con il pittore Roberto Plevano ci avevano portati tutti e tre alla Libreria Bocca di Milano nel febbraio 2002 a inaugurare la mostra di Roberto “Donne allo specchio” accompagnata dal catalogo con le mie poesie e la presentazione di Mario.

Tra le poesie, che avevo dedicato ai quadri di Roberto e ad alcune donne importanti nella mia vita, ne scelgo una che credo si attagli a Mario.

 

 

Lo specchio della memoria

 

L’infanzia del mondo non

sembra avere lasciato la tua

fronte. Essa permane

intatta, ombreggiata dalle

sole immagini che non

diventano o non trovano

parola.

 

 

Mario di parole ne aveva moltissime, era un grande affabulatore e le conversazioni con lui, anche telefoniche, potevano durare per ore e ore. Amava anche la parola poetica e ancora nel 2003, quando iniziai a curare la rubrica poetica “Il colore della voce” sulla rivista Arte-Incontro in Libreria della Libreria Bocca, gli avevo chiesto una poesia per inaugurare la rubrica che era dedicata a I Luoghi e la Memoria.

 

 

Radici Perdute. Rab: il Ritorno Impossibile

 

Nel luogo delle origini perdute

s’infrangono le trame dell’oblio:

pietre silenti, cariche di storia,

tombe ignorate, meste e polverose,

tracce dolenti di un esilio amaro.

Brandelli rinnegati di memoria

rivivono nei sogni del ritorno:

lacerti di una pena irredimibile…

Sopra il battello volano i gabbiani

e vola e si spaura il mio dolore:

strazio del tempo, che non posso vivere.

 

 

Così ti saluto amico mio, rapito dal tempo troppo presto, ti saluto con questa Cronaca 232, scritta il 27 ottobre dell’anno senza Carnevale. Il titolo è un verso di José Saramago che ho scelto perché, per oggi, le parole le ho proprio finite.


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