Giro intorno
a questo mese ancora nuovo, giro e non lo vedo poi così diverso da tutti i suoi
fratelli ottobre che ho già incontrato. Ma com’erano quei mesi un tempo? Com’era
ottobre prima che la pandemia divorasse il senso del futuro? Ecco la summa dei
mesi che abbiamo conosciuto, qui nella città silenziosa e già ricoperta di
foglie.
Ottobre, via Molino delle Armi (dove Milano parla ai
suoi abitanti)
La notte sale come un lamento, ora fa buio presto. Proibito restare in cortile dopo le sei. A quell’ora i genitori che lavorano stanno per arrivare a casa. I bambini finiscono i compiti e poi sono di nuovo incollati davanti al televisore. È proprio autunno, lo si vede dalle foglie che giacciono avvizzite per le strade. Sono così numerose che gli spazzini fanno fatica a starci dietro. Sotto le scarpe è tutto uno scricchiolare. Una bambina sta girovagando sotto degli alberi di betulla. Sta cercando le foglie perfette, una simile all’altra nella forma, ma di colore digradante, così da poter illustrare la sua ricerca sull’autunno. Eccole, sono undici, sono proprio tutte uguali. La bambina torna in casa e le incolla con cura sul quaderno a quadretti grandi. In cucina sua madre sta cucendo un cappottino blu da bambino, tra poco le chiederà di provarlo. Con indosso il cappotto che non le appartiene, la bambina si chiederà chi è il bambino che lo indosserà al suo posto, se gli piace andare a scuola, che cartoni animati guarda in TV. In strada c’è qualcun altro che rovista, non tra le foglie secche, ma nei cestini della spazzatura. È un ragazzo i cui abiti hanno assunto un uniforme colore marrone. Porta i capelli lunghi e intrecciati, pronti per fare da nido ai passeri cittadini. Se esce un po’ di sole, si sentono ancora i loro cinguettii. Ma mancano le rondini e il cielo appare ancora più grande e vuoto. Il cielo di ottobre. Ha perduto ogni colore, è sempre bianco sporco per tutto il giorno e spesso lo è anche di notte. Un cielo bianco, a volte fa venire solo voglia di urlare. Ma le urla si perderebbero nel frastuono della città. Un cielo maledetto che ci tiene prigionieri, soffocati nell’abbraccio senza calore di questo agglomerato di case, dove il caso ci ha destinato. Poi finalmente tutto quel biancore cede alla forza delle nuvole d’autunno, piove. Piove sulle foglie secche e ne fa macero, piove sulle macchine che sembrano nuove. Piove, ma è una pioggia senza sollievo, perché solo altra pioggia seguirà. Le tane sono state preparate. Possono camminare i miei abitanti rasente ai muri e pensare solo al momento in cui chiuderanno la porta di casa dietro di sé. Come se in casa ci fosse qualcuno ad aspettarli, come se un tetto sopra la testa fosse un sollievo. Nel buio della casa vuota potranno raccontarsi che domani sarà diverso, che finiranno tutto quello che hanno iniziato. Che domani parleranno con la vecchia signora che incontrano tutte le mattine sul tram. Qualcuno si schianta sotto il peso di ottobre e si contorce nel letto vuoto. Strano, inconsueto, attacco di nostalgia, la nostalgia è compito di settembre, l’estate graffia ancora le gambe in settembre. Ma ottobre? Se fossero felici tutto brillerebbe nell’oro delle foglie cadute, nella calda intimità di una vita quotidiana con un senso anche se senza un fine. Attimi di felicità, quanti ne toccano in una vita, quanto tempo passeranno a rimpiangerli, dopo? Ma se fossero felici proprio in questo momento, anche la pioggia non sarebbe il devastante lamento di questa città che muore, schiacciata tra il cuore metallico delle auto in circolazione e quello freddo dei suoi abitanti distratti. Io muoio, lo sanno? Lo sentono che sto morendo con loro? Camminate sotto la pioggia, tenete a bada la malinconia. Ma ottobre ha bisogno di un ombrello rosso e di un amore sotto quell’ombrello. Gli amori scolastici nascevano in ottobre, lunghi percorsi dalla periferia verso la scuola a parlare della prossima interrogazione, gli occhi di lei che paiono smisurati e un desiderio di sentirle la bocca che sale dalle gambe fino alla testa. Iniziavano anche le occupazioni delle scuole in ottobre, ai tempi in cui trovare un lavoro non era una preoccupazione. Ai tempi in cui i vostri occhi avevano sguardi diversi su un mondo uguale. Erano occhi di sedicenni e ottobre il mese delle castagne arrosto mangiate per strada. Infaticabili nello stare il più lontano, per il più lungo tempo possibile, dalla scuola, a cronometrare le uscite dei genitori da casa e alle nove essere sicuri che fossero tutti al lavoro. Tornavate a casa di corsa senza farvi vedere dalla portinaia e passavate la mattina nel letto grande a fare l’amore. Poi vi facevate trovare alle sette di sera ancora insieme, chini sui libri e bofonchiare qualcosa sulla giornata passata a scuola, la complicità tenuta insieme dalle ginocchia unite sotto il tavolo della cucina. Vi davate un bacio sulla porta di casa e sentivate di avere un marchio stampato sulla fronte e le labbra: sono stata baciata tutto il giorno. Uscire di sera con la scuola era più difficile, meglio guardare un po’ di TV mangiando cioccolatini, fingendo coi vecchi che andasse tutto bene, chiudersi in camera a leggere Ungaretti e Montale, Rimbaud e Baudelaire, perdersi con lo sguardo oltre la finestra, le parole che vi danzavano sulla lingua. Ottobre, ottobre, il tuo nome come una pestilenza, come una malattia. Vagate miei prigionieri per le vie della città, insonni e immemori di ogni cosa, incapaci di ogni guarigione. Vedete negli occhi degli altri passanti la stessa malattia, lo stesso lamento da incurabili. Dell’essere vivi, prima di tutto, e abbandonati alla foga del destino. Rifugiatevi in un cinema e nel buio della sala sperate che all’uscita sia tornata l’estate. Inutile speranza, vano gioco da bambino. Tornate a casa e riascoltate la collezione completa dei Genesis, sulla canzone del carillon ricordare i capelli di lei buttati indietro nel momento del piacere. Svegliatevi di colpo e capite che non era un ricordo ma un sogno ad avervi afferrato la gola. Andate in cucina e mangiate gli avanzi di ieri. Sentitevi male al pensiero di dovere tornare in ufficio domani. Chiedetevi che cosa ne sarà stato di quella compagna di scuola. Poi guardate il calendario e contate quanti giorni mancano alla fine dell’anno. Buttate i giornali della settimana passata, bevete una birra anche se non è stagione. Ben tornato autunno, stagione della malinconia. Ben tornato in questa città dove l’estate passa come l’ombra di un sogno, dove non c’è sollievo a nessuna tristezza, dove perdersi e non trovarsi mai è la principale occupazione di chi, in questa città, dice di viverci e invece forse nemmeno ci respira. Ben tornato autunno, signore dal mantello grigio, ti combatterò con quell’ombrello rosso stretto tra le mani. Sarò sconfitta un’altra volta ancora, ma almeno saprò di non essermi arresa alla furia dell’inverno che si avvicina, in questa cartografia che non ho scelto ma che non riesco a modificare. In queste strade dove cerco con i miei occhi invecchiati, di rivedere i colori della mia adolescenza, del tempo in cui tutto ancora sembrava possibile. E forse lo era davvero.
Avete riconosciuto la vostra adolescenza in questo brano che racconta dei mesi di ottobre di un tempo lontano? Avete mai avuto nostalgia della vostra adolescenza? Io no. Io mai. Guardo avanti e con incrollabile cieca fiducia nel futuro mi dico che “il meglio deve ancora venire”.
Oggi è il
primo lunedì del decimo mese dell’anno senza Carnevale. Il brano centrale è un
capitolo del mio primo romanzo Frammenti
del tredicesimo mese. Per fortuna si è adolescenti solo una volta. “Il
meglio deve ancora venire” è un verso di Robert Browning.
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