mercoledì 21 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/227: tra gli alti pini il vento soffia una voce d'autunno

 


Siamo noi a scegliere il tempo, il luogo e la famiglia dove nascere?

James Hillman, con la sua teoria della ghianda, propone un’ipotesi affascinante.

 


Cosa intende, dunque, per teoria della ghianda il noto analista junghiano? Ecco uno stralcio dal suo libro Il codice dell’anima:

“Ci sono più cose nella vita di ogni uomo di quante ne ammettano le nostre teorie su di essa. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo «qualcosa» lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono. Questo libro ha per argomento quell’annuncio. O forse la chiamata non è stata così vivida, così netta, ma più simile a piccole spinte verso un determinato approdo, mentre ci lasciavamo galleggiare nella corrente pensando ad altro. Retrospettivamente, sentiamo che era la mano del destino. Questo libro ha per argomento quel senso di destino. Tali annunci e tali sensazioni determinano una biografia con altrettanta forza dei ricordi di violenze terribili; solo che quegli enigmatici momenti tendono a essere relegati in un angolo. Le nostre teorie, infatti, danno la preferenza ai traumi, e al compito che essi ci impongono di elaborarli. Ma, nonostante le offese precoci e tutti i «sassi e dardi della oltraggiosa sorte», noi rechiamo impressa fin dall’inizio l’immagine di un preciso carattere individuale dotato di taluni tratti indelebili. Questo libro ha per argomento la potenza di quel carattere. Poiché le teorie psicologiche della personalità e del suo sviluppo sono così fortemente dominate dalla visione «traumatica» degli anni infantili, la messa a fuoco dei nostri ricordi e il linguaggio con cui raccontiamo la nostra storia sono a priori contaminati dalle tossine di tali teorie. È possibile, invece, che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparato a immaginarla. I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili, bensì - è quanto si sostiene in questo libro - dalla modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati da cause esterne che ci hanno plasmati male. Questo libro, dunque, vuole riparare in parte a tali guasti, mostrando che cos’altro c’era, c’è, nella nostra natura. Vuole risuscitare le inspiegabili giravolte che ha dovuto compiere la nostra barca presa nei gorghi e nelle secche della mancanza di senso, restituendoci la percezione del nostro destino. Perché è questo che in tante vite, è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi. Non la ragione per cui vivere; non il significato della vita in generale, o la filosofia di un credo religioso: questo libro non ha la pretesa di fornire risposte del genere. Esso vuole rivolgersi piuttosto alla sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine innata, i cui contorni va riempiendo nella propria biografia. Quell'immagine innata è anch’essa l’argomento di questo libro, così come è l’argomento di ogni biografia - e nelle pagine seguenti ne incontreremo molte, di biografie. Quello della biografia è un problema che ossessiona la soggettività occidentale, come dimostra il suo abbandono alle terapie del Sé. (…) Io dico che siamo stati derubati della nostra vera biografia - il destino iscritto nella ghianda - e che entriamo in analisi per riappropriarcene. Ma l’immagine innata non si potrà ritrovare, finché non disporremo di una teoria psicologica che attribuisca realtà psichica primaria alla chiamata del destino. Altrimenti, la nostra identità continuerà a essere quella del consumatore dei sociologi, determinata da statistiche calcolate su campioni casuali, mentre le sollecitazioni del daimon, non riconosciute, appariranno come eccentricità costipate di aggressivi rancori e di paralizzanti nostalgie. La rimozione, che tutte le scuole terapeutiche considerano la chiave di accesso alla struttura della personalità, non riguarda il passato, bensì la ghianda, e gli errori che in passato abbiamo compiuto nel rapportarci a essa. Noi appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco. Perciò questo libro raccoglierà anche il tema romantico e oserà vedere la biografia alla luce di grandi idee, come la bellezza, il mistero, il mito. Fedele alla sfida romantica, si arrischierà a lasciarsi ispirare da parole grosse, come «visione» e «vocazione», preferendole alle parolette riduttive. Non è bene sminuire ciò che non si comprende. Anche quando, in uno dei prossimi capitoli, analizzeremo le spiegazioni genetiche, pure lì troveremo il mistero e il mito.”


Collocati dal fato, dal destino o dal daimon in questo spazio-tempo ci ritroviamo, noi la generazione fortunata dei baby-boomers, i nostri genitori e i nostri discendenti, in una situazione non imprevedibile ma imprevista, intrappolati nei miti del progresso e della crescita perpetua. Una pandemia, i cui esiti sono largamente lontani dal mostrare il volto definitivo, ci colloca nel chiuso delle nostre case, nell’oscurità delle notti che saranno popolate solo dai fantasmi, degli abbracci impossibili, nella solitudine degli ospedali, nella diffidenza ancora più marcata verso gli estranei.

Ho usato questa parola “estraneo”, ma come scriveva Terenzio “Nulla che sia umano mi è estraneo”. Ciò significa che ciascuno di noi dovrebbe essere in grado di sentire come stanno vivendo, gli altri vicini e lontani, come le emozioni esplodono in noi e ci fanno oscillare come onde di un mare immenso e tempestoso.

Non mi piacciono, ma questo già dalla fine di febbraio, i titoli gridati dai quotidiani anche sui loro siti. Non mi piacciono le accuse, i fatalismi e la rassegnazione.

Ciascuno di noi può fare qualcosa in questo frangente, è poca cosa e semplice: utilizzare le mascherine, lavarsi le mani, evitare gli assembramenti, limitare le occasioni familiari con partecipanti numerosi, lavorare da casa per chi ha la fortuna di poterlo fare.

Questa situazione ci costringe a limitare il nostro sguardo al piccolo angolo di mondo che ci contiene: la nostra casa, il nostro paese o quartiere.

Dovremmo cercare di tenere vive le conversazioni, leggere buoni libri e guardare bei film, continuare a fidarci gli uni degli altri, perché è la capacità di cooperare in vista del raggiungimento di un obiettivo comune che fa, anche, la forza della nostra specie, noi umani, gli abitanti più invadenti di questo pianeta bellissimo che rotola nello spazio-tempo e noi non sappiamo ancora, se mai lo sapremo, perché tutto ciò accade.

Così oggi cerco risposte nella teoria della ghianda, cuocio gli spinaci per farne frittate, risotti e polpette, telefono alle persone a me care.

E sogno e immagino quel che non posso vedere: “tra gli alti pini il vento soffia una voce d'autunno”.

Sento questa voce, respiro il profumo della resina, mi chiedo cosa ci sia oltre questo bosco, quando potrò seguire questo nuovo sentiero?

I miei occhi sono stanchi perché è da stamattina alle otto che scrivo al computer e dopo il lavoro per il pane quotidiano, mi sono messa a scrivere questa Cronaca 227, corollario del ventunesimo giorno del mese di ottobre dell’anno senza Carnevale.  Il titolo è una citazione da Sei Shonagon dai Racconti del cuscino o Note del guanciale.

Il codice dell’anima è stato pubblicato da Adelphi nel 1997.


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