venerdì 12 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/96: le betulle, i lupi e l’alfabeto del vento


Il vento non ha una sola voce, geme, sbraita, ulula, soffia, alita e spettina, si alza e cade, cala, cambia e cessa, infuria e fischia, mulina e si leva, spira e tira, urla e gonfia e altro ancora.

Ma ogni azione non dipende dalla sua intima natura.

Tutto ciò che il vento fa, dipende dagli abbracci orizzontali e verticali “dell’aria che spira” e dai corpi di carne o roccia, di acqua o di alberi, che incontra nel suo cammino.

Gli ostacoli e il movimento finiscono con il creare quel mondo di suoni che ci atterrisce o ci incanta.

E se osserviamo e ascoltiamo, capiremo che la voce del vento è la vera voce dei corpi che incontra e avvolge, nient’altro.

Oggi ad esempio ho osservato il vento giocare con i lupi e spettinarli, solleticarli, spingerli a terra, così che nella loro pelliccia restassero imbrigliati i tanti fiori che ogni sera portano a casa.

È un vento amorevole quello dei lupi, così come lo sono loro e guardarli è una vera gioia.

Ora giocano a nascondino nel boschetto di betulle e il vento li insegue e fa oscillare i rami flessibili e rilucere la corteccia bianca a ogni gioco d’ombra delle foglie.

Quando penso alle betulle penso subito alla Russia, ho imparato a pensarlo dai libri. Aleksandr Puškin scrisse a Anton Del’vig a proposito del suo viaggio in Crimea: «Abbiamo oltrepassato le montagne e, il primo elemento che mi ha lasciato a bocca aperta è stata una betulla, una betulla argentata! Provai una stretta al cuore: già iniziavo a sentire la mancanza di quel tenero mezzogiorno, nonostante io mi trovassi ancora nella Tauride e vedessi ancora pioppi e viti».

Alla Russia associo la neve, il tè, la poesia, una rivoluzione, la lingua russa e quella francese, le anime incandescenti.

Lascio i lupi alla loro sarabanda amorosa e mi viene in mente Händel e la sua Sarabanda che gli amanti del cinema hanno imparato ad amare in Barry Lindon e quel film meraviglioso mi porta al Settecento, all’epoca dei Lumi, delle parrucche incipriate e via a seguire Mozart, l’Enciclopedia, la lingua francese che adoro, le Bas Bleu, Diderot e Voltaire e alla fine l’altra rivoluzione.

Ora guardo la sacerdotessa e il suo sapiente guerriero, dovrò chiedere anche loro una storia o molte storie da raccontare, per noi che qui, ai piedi delle Montagne della Nebbia trascorriamo ormai così tanto tempo.

Cosa accade quando il vento incontra un bosco di querce? Mi avvio per il nuovo sentiero e intravedo in una piccola radura il re e la regina che indossano abiti di foggia medioevale. Certo la quercia è simbolo sacro dei celti e richiama la magia, così penso al poeta che è un mago, evoca le ombre anche di notte, si perde nella più scintillante luce e muta la materia come solo gli alchimisti sapevano fare e il poeta è nel bosco e parla con le querce.

Come fuggono i miei pensieri, sembra che il vento favorisca le fughe stasera, perché non riesco a fermare nessuno degli altri abitanti e condividere quel che sento e vedo.

Come cambia una voce nel coro del vento? Canto e grido, chiamo l’architetto, solo con il pensiero. E lui arriva, sorride, ha le mani ricoperte di polvere d’oro.

Il vento fa svolazzare la sua tunica e il mantello di velluto scuro. Anche i suoi capelli ondeggiano e seguono il mio richiamo.
Dalle mie tasche profonde estraggo un foglio che ho scritto a casa e lascio che sia il vento a portarlo sino a lui.


Un tavolo, la carta bianca, l’inchiostro rosso


Facile lasciare che lo sguardo
replichi un senso se il suo
orizzonte è una vasta collina
o la linea dritta dove amoreggiano
mare e cielo, dove le onde
scrivono una storia di spuma
sull’acqua e i gabbiani rispondono
incidendo l’aria e dissolvendo
le nuvole. Questi canti non
hanno bisogno di voce umana,
non dove le spighe di grano
sono alfabeto del vento e
l’uva nei grappoli racconta
il vino che porterà altre
storie nelle sere invernali.
E il poco di questa stanza
senza luce, di un tavolo liscio
che placa la paura, di inchiostro
rosso e carta bianca, dei
fiori che scrivono una storia
che non conoscono, della poesia
che infrange il silenzio e si
ribella alla morbida quiete
di un pomeriggio estivo.


Mi sorride l’architetto e infila il foglio nel suo taccuino rosso, poi rapido torna verso la sua Casa.

Io cerco altri corpi, intorno a cui decifrare l’alfabeto del vento, la sera si avvicina a piccoli passi e scompiglia al vento i suoi capelli sottili e il vento ricambia con una folata che mi attraversa, come se io, pure, fossi fatta d’aria e nient’altro.

Il vento “aria che spira” è una citazione di Seneca dalle Questioni naturali.

Il frammento della lettera di Puškin è ripreso dal blog Russia in Translation

La mia poesia è tratta dalla raccolta Scrivere il vento. Atì editore 2016

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