sabato 6 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/90: incessantemente la rosa si tramuta in altra rosa


Rondini, rondini soltanto rondini che sfidano le nuvole nel cielo. Scendono in picchiata, risalgono, si chiamano.

I gelsomini continuano a fiorire e il loro aroma impregna l’aria anche di giorno, la notte sembra di essere in un giardino orientale dove gli amanti passeggiano nel buio.

La città che ha oscillato tra il silenzio e i soliti, fastidiosi rumori umani, oggi splende di assenza. I milanesi non amano restare nella loro città nei fine settimana, fuggono sempre altrove. Mare, campagna, montagna, lago, città d’arte. I miei concittadini potrebbero contribuire a scrivere un Dizionario della fuga e dei ritorni. So quanto abbiano patito nei mesi di confinamento, so quanto il clima in questa terra spinga alla fuga. So quanto i milanesi amino parlare malissimo o benissimo della loro città e sottolineo loro, perché i non milanesi, secondo i milanesi, non possono capire lo spirito della città del fare, che è stata costretta a fermarsi, a riflettere. Ma tanto tutto sta già tornando come prima. Così lascio la città vuota di abitanti e torno alle mie amate Montagne della Nebbia e senza neanche passare dalla Casa delle Parole, vado a vedere se è cambiato qualcosa alla Casa delle Stelle.

Il mosaico delle stelle binarie si è ingrandito, sul piccolo scrittoio, nel taccuino rosso c’è una rosa appena recisa, come fosse un segnalibro. Con la grafia elegante che sto imparando a conoscere, il misterioso architetto ha copiato la seconda parte della poesia di Borges che gli ho portato ieri.



II.

Vanno per l’aria placide montagne
oppure cordigliere d’ombre tragiche
che oscurano il giorno. Le chiamiamo
nuvole. Hanno sempre forme strane.
Shakespeare ne osservò una. Somigliava
a un drago. Quella nube di una sera
risplende e brucia nella sua parola
e ancora seguitiamo a rivederla.
Le nuvole che sono? Architettura
del caso? Forse Dio ne necessita
per eseguire l’opera infinita:
sono i fili della Sua trama oscura.
Forse la nube non è meno vana
dell’uomo che la guarda nel mattino.




Quanto amo questa poesia e l’uomo che l’ha copiata deve amarla quanto me.
Lo sguardo cieco di Borges, lo sguardo acuto di Shakespeare, la nuvola a forma di drago, le parole dei poeti che ardono nei secoli, la mia curiosità, la gioia di quegl’istanti in cui il mondo, la sua bellezza, la potenza del canto sono un tutt’uno e risplendono ancora nel mio mattino.

Porto la rosa recisa con me, la rosa che diventa tutte le rose, la rosa dei poeti, la rosa degli innamorati, la rosa che fiorisce senza un perché e profonde bellezza e mistero da quando è bocciolo a quando sfiorisce e lascia che i petali tornino alla terra e al vento.

Sulla strada del ritorno incrocio la coppia regale che torna alla casa comune. Anche la regina ha in mano una rosa che pare la gemella di quella che ho io. Scorgo un lampo di curiosità nel suo sguardo mentre si accorge della mia rosa.

Al nostro piccolo corteo si uniscono i lupi che hanno la capacità di sbucare all’improvviso come se arrivassero da un’altra dimensione e forse è proprio così.

Seduti nel giardino davanti alla nostra casa ci sono la sacerdotessa e il guerriero, lui le sta porgendo una rosa identica alle altre due.

Le tigri arrivano di corsa a salutare i lupi, le aquile sorvegliano il nostro cielo mentre una brezza leggera si mischia al nostro respiro.

Il congedo di questa sera è un appunto di Marguerite Yourcenar.


“Una rosa è una rosa, ma dalla rosa di Anacreonte alla rosa del Roman de la rose, dal rosone delle cattedrali ai mazzi di fiori di Renoir, si esprimono, si elidono e si susseguono tutti i possibili modi di vedere la rosa e la vita”.

1942

Marguerite Yourcenar

Pellegrina e straniera
Carnet di appunti, 1942-1948

traduzione di Elena Giovanelli
Einaudi 1990



La poesia di Jorge Louis Borges è tradotta da Domenico Porzio. Tutte le opere.Volume I. Meridiani Mondadori, 1984

***


II
Por el aire andan plácidas montañas
o cordilleras trágicas de sombra
que oscurecen el día. Se las nombra
nubes. Las formas suelen ser extrañas.
Shakespeare observó una. Parecía
un dragón. Esa nube de una tarde
en su palabra resplandece y arde
y la seguimos viendo todavía.
¿Qué son las nubes? ¿Una arquitectura
del azar? Quizá Dios las necesita
para la ejecución de Su infinita
obra y son hilos de la trama oscura.
Quizá la nube sea no menos vana
que el hombre que la mira en la mañana.

Jorge Louis Borges

da “Los conjurados”, Alianza, Madrid, 1985

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