Cosa
pensano le stelle, ve lo siete mai chiesto? Cosa pensa l’ulivo millenario in
fondo al campo e cosa la quercia altrettanto vasta e silenziosa?
Come
possiamo chiedere alle stelle, all'ulivo e alla quercia quali pensieri assedino
luce e lontananza, corteccia e radice?
Cosa ci
risponderebbe il vento se parlassimo la sua lingua di ostacoli e aria?
Cosa ci
risponde il mare che interroghiamo a ogni onda che tocca la riva?
Sono sdraiata
sulla mia spiaggia preferita, reale o immaginaria, poco importa.
Lascio in
pace le onde piccole di questo ultimo pomeriggio di primavera, non disturbo il
vento e il sole. Mi concentro sulle nuvole di cui ho scritto in un romanzo di
qualche tempo fa:
“Oggi
ho visto Dio, è un enorme ragno dalla pancia azzurra che se ne sta appeso sopra
le nostre teste. A dire il vero non è dalla pancia azzurra che ho capito il suo
essere divino, né da qualche particolare anatomico, solo ho intuito il suo
essere ragno. (…)
Le
nuvole, ora ricordo, ora so, ho capito. Quel primo mattino in cui ho intuito la
presenza di Dio, parecchie nuvole inframmezzavano la perfezione della sua
pancia azzurra. Le nuvole sono la sua tela di ragno e, non avendo Dio una voce
umana da farmi ascoltare, è con le nuvole che mi sta parlando. Le nuvole sono
la sua lingua, le bianche meravigliose nuvole di questa mattina piena di sensi
e significati nuovi. Ma cosa dicono due nuvole piccine che si disperdono in
rivoli di vapore, prima ancora di essere arrivate abbastanza in alto per poter
essere straziate dal sole?”.
Se le
nuvole sono la lingua di Dio, in questo mese di giugno che si avvia alla fine,
Dio ha avuto davvero molto da dire. Non c’è stato un solo pomeriggio che non
sia stato oscurato da una moltitudine di nuvole come ne ho viste, forse, solo
in Norvegia e Irlanda, lì dove le nuvole nascono.
Ma non
voglio considerare gli elementi come mezzi di un pensiero altrui.
Dunque,
cosa pensano le nuvole?
Corro,
corro, cado, pioggia
e
temporale, corro, mi schianto,
respiro,
il vento mi strappa,
il
vento mi avvolge, nera,
sono
nera, mi alzo, non vedo
più la
terra, la pioggia,
la
pioggia, cade, mi fa male
quando
cade. Finisce,
finisce
il temporale, ritorno
nel
vento, evaporo, svanisco.
Provate
a moltiplicare questa voce per tutte le nuvole che vedete in cielo. Questo è un
coro che canta all'unisono anche se ogni nuvola ha una sua voce singolare.
Facile dare
voce alle nuvole che, in fin dei conti, sono vicine.
Ma le
stelle? Cosa pensano le stelle? Le distanze tra noi e le stelle sono infinite,
impensabili nell'ordine di grandezza di una vita e di un pensiero umano.
Come le
nuvole pensano al singolare, come le nuvole si avvicinano a noi in un coro.
Giro, giro
e non mi fermo,
dall'esplosione
primordiale fino
alla
fine dell’eternità, continuerò
a
girare e mai potrò guardarmi
indietro.
La mia luce vive in uno
spazio
che non mi appartiene,
mi
guardate voi da laggiù? E cosa
vedete
se non la luce fredda della
mia
passione? Ricambio la vostra
devozione
indicandovi la strada,
suscitando
l’inguaribile nostalgia,
per ciò
che non siete stati. Nel
buio
illumino il desiderio degli
amanti,
incorono la regina della
notte e
il suo adorato re. Mi
guardate
ancora? Guardate
anche
stasera quando sorgo
poco
dopo la fine della luce
vera.
Ecco che
nel coro delle nuvole e delle stelle sentiamo spirare il coro del vento.
Il vento
ha voce, lo sappiamo, il vento ha anche forma e anche questo sappiamo.
E tutte
queste voci si intrecciano quassù, prima sul mare e poi sull'Altipiano.
Sono voci
che portano pensieri immaginari e reali. Sono i nostri pensieri a dare voce
agli elementi, a credere che la nostra voce basti a dare voce al creato.
Sono lunghi
e brillanti tutti questi pensieri degli elementi, come diamo voce e pensiero al
vento, lo stesso facciamo con la rosa e il temporale.
Solo quando
la pioggia è finita, vediamo la rosa risplendere ancora più vera.
Da quaggiù,
un punto infinitesimale dell’unico universo di cui abbiamo certezza, vi saluto
in compagnia delle rose che cantano al vento il loro amore e a me offrono la
bellezza fragile di ogni desiderio celeste e terrestre.
Vorrei avere
mani piccole per sfiorare le rose e uno sguardo acuto per coglierne il colore.
Ma tutto
quello che ho sono le parole, queste parole, le mie parole.
Nient’altro,
non più.
Dopo il
temporale e le rose sfiorite, resta il racconto di chi le ha vedute.
* La citazione è tratta dal capitolo La pancia azzurra dio Dio del mio romanzo Frammenti del tredicesimo mese. Atì editore 2007.
**Le due poesie le ho scritte per questa Cronaca 103.
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