venerdì 26 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/110: la luce nell'aria e tutto intorno a me


Prima di iniziare la salita bisogna che la luce passi attraverso gli occhi, sbianchi lo sguardo e ci lasci immemori di chi ci ha preceduto.
Ai piedi del Monte Ventoso l’aria brillava come se una mano feroce avesse passato la mattina a lucidare il cielo. Il mondo riposava in quella luce che chiedeva coraggio, invocava la fatica della salita, il desiderio della cima, lo sguardo che infine poteva librarsi prossimo alle nuvole.
L’aria profumava di lavanda, di timo, di sale e di miele. Le api ronzavano incrociando il volo delle rondini, e il vento ci spingeva nel luogo dove lo sguardo diventa acuminato e la luce rivela i suoi segreti. Dopo uno dei tornanti, una stradina laterale, quasi nascosta dagli arbusti, finiva vicino a tre minuscole case dai colori della terra e delle rose.
Una porta era aperta e c’era infisso nello stipite un cartello che invitava a entrare. Nella zona d’ombra della stanza una donna giovane con lunghi capelli biondi e ricci, stava dipingendo un vaso fatto a mano. Indossava una tunica di lino color avorio dai complicati ricami in oro.
Il tempo si fermò con me a guardarla lavorare. Alle pareti erano appesi quadri che la ritraevano e i colori erano gli stessi celesti e ocra che stava usando per quella decorazione. Non dubitai che anche la mano fosse la stessa. Un cane lupo dormiva nella lama di luce sotto la finestra, il muso appoggiato al fresco pavimento di pietra.
La seconda stanza sembrava vuota, ma dal piano superiore un suono di pianoforte irruppe nell’aria, così intenso e improbabile perché era musica di un altro tempo remoto, ma sbagliato. Mi fermai ad ascoltare in silenzio, in un vaso trasparente rose bianche e gialle fiorivano e appassivano sotto i miei occhi.
Quando la musica tacque mi accorsi che la donna e il cane non erano più nella stanza. Uscii ma intorno alla casa non c’era nessuno e le imposte del piano superiore vennero sbarrate.
Ripresi la salita senza mai smettere di cercare quelle case a ogni giro, le vidi sino alla fine della strada, sempre più piccole, sempre più simili a un mucchietto di sassi gettati con noncuranza.
In cima mi accolse un vento impetuoso, mi inginocchiai per salutarlo e rimasi a guardare l’orizzonte oscillando a ogni folata.
Al ritorno svoltai verso le case perché volevo comprare un quadro. Ma c’erano solo un mucchio di mattoni e pietre e un muro che finiva con una finestra aperta su una stanza invisibile.

Non appena finii di leggere chiusi il quaderno e guardai gli abitanti della Casa delle Parole. Il poeta accennò un applauso, il misterioso architetto e il sapiente guerriero chiesero di poter ricopiare il racconto nei loro taccuini. La lupa venne ad accucciarsi ai miei piedi, la regina e la sacerdotessa parlavano a bassa voce.
- È un sogno quello che ci hai letto? – mi chiese il re.
- No, non è un sogno, è un ricordo. Una cosa accaduta in un altro tempo e in un altro spazio. Ma oggi, quando sono andata a camminare alle pendici della cima più bassa delle Montagne della Nebbia e l’aria intorno me era d’oro e turbinava, mi è ritornata in mente l’ascesa al Monte Ventoso che avevo scritto dopo averla vissuta. Non ho inventato nulla. Le cose erano proprio come le ho descritte. Quando ho preso la strada del ritorno, stamattina, ho rivisto le stesse case del racconto. Perché, sapete, è proprio vero che immaginazione e memoria costruiscono la nostra realtà. Andiamoci insieme domani, voglio vedere se qualcosa sarà cambiato, perché anche voi avete immaginato le case prima vissute e poi in rovina.

Con questo racconto chiudo una panoramica sui quattro elementi, forse scriverò anche del legno anche se di ciascun elemento ho già scritto molto e ritorno sempre sui miei passi e sulle mie parole.
Questa sera vi saluto con un brano da uno dei miei scrittori più amati di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

 

“Ma la cosa più bella è l'aria. Sì. E a poco a poco, ho imparato a vivere dentro di essa. L'aria e la luce, sì, anche quella, la luce che risplende su tutte le cose e le rende visibili ai miei occhi. C'è l'aria e c'è la luce, e questa è la più bella. Mi perdoni. L'aria e la luce. Sì. Quando è bel tempo, mi piace star seduto vicino alla finestra aperta. A volte guardo fuori e osservo le cose sottostanti. La strada e tutte le persone, i cani e le automobili, i mattoni del palazzo di fronte. E poi ci sono le volte in cui semplicemente chiudo gli occhi e rimango seduto, con la brezza che mi soffia sul viso, e la luce nell'aria, tutto intorno a me e appena oltre i miei occhi, e tutto il mondo è rosso, di un bellissimo rosso nei miei occhi, con il sole che splende su di me e sui miei occhi”.


La sera dolce e profumata si avvicina a piccoli passi, l’aria resterà con noi, la luce si avvolgerà nel suo mantello notturno, solo dentro di noi continuerà a risplendere come ricordo e come desiderio.


Il mio racconto è inedito in volume, l’ho riletto pensando a questa Cronaca 110 e ho deciso di inserirlo.

La citazione è di Paul Auster, dalla Trilogia di New York. Città di vetro. Einaudi 1996, traduzione di Massimo Bocchiola.

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