martedì 23 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/107: l’arte è quell’Itaca di verde eternità, non di prodigi

Seguo il fiume controvento, l’acqua corre verso il mare e io vado in senso inverso.

Conosco bene il luogo dove le acque si mescolano e quelle dolci lasciano il passo al sale e al verde profondo. Le rive sono sabbiose e incerte, dalla spiaggia costellata di gigli marini bianchi, che hanno un profumo insopportabile, siamo costretti a spostarci nella pineta.

Il profumo dei pini marittimi è diverso, mi ripulisce il naso dall’odore morboso dei gigli, mi libera i pensieri.

I gigli mi riportano alle estati dell’infanzia, ai brividi del primo bagno la mattina presto, al bagno delle dieci, ora strategica per poter mangiare una pizzetta e poi fare di nuovo il bagno a mezzogiorno, prima di pranzo.

Aspettare che tutti vadano a sedersi all’ombra della pineta e poi rituffarsi per l’ultimo bagno nel silenzio delle voci umane.

Il sole riverbera sulla cresta delle onde e poi nei miei occhi, mi lascio cullare dalle onde, chiudo gli occhi, mi distendo, galleggio, sento che la corrente mi sposta, mi abbandono.

Quando esco dall’acqua gli altri stanno già mangiando, pomodori, cetrioli, cipolle rosse di Tropea, tonno sotto’olio, pane fresco, origano e sale.

E poi angurie, pesche, albicocche e susine. Ci sono ancora alcune pizzette, le migliori del mondo, poi una fetta di pane conzato.

Qualcuno pisola dopo pranzo, il suono delle onde culla, i padri iniziano a giocare a bocce, io mi stendo sotto l’ombrellone sulla sabbia fresca e leggo.

La vita di chi un giorno scriverà è prima di tutto la vita di chi osserva.

Vivere osservando, il primato dello sguardo, mentre la voce del mondo si intesse con la propria voce.

Sono tutti lì, ancora, che mangiano e giocano e ridono. Gli anni difficili sono ancora lontani, oggi è per sempre.

Questo è l’infanzia, vivere ogni giorno come se fosse l’eternità.

Torno sui miei passi e riprendo a seguire il corso del fiume.

L’acqua è verde, i pesci passano sfiorando le gambe. È difficile nuotare nei fiumi, ma qui il fiume è davvero stretto e poco profondo.

Una volta di rami d’albero intrecciati frantuma i raggi del sole.

Cosa ha reso indelebile questo ricordo? Eravamo sempre noi, gli stessi della spiaggia. L’incanto è il colore di quell’acqua, di quel fiume dove non siamo mai più ritornati.

Ora sono arrivata alle sorgenti dello Ouadi Arugot, le stesse cascate, il vento discreto, non una sola voce intorno.

Ognuno di noi ha un fiume nel cuore, un fiume che scorre sotto la pelle e porta ricordi e sogni più ancora che speranze.


Io sono il mio fiume

Io sono il mio fiume, il mio chiaro fiume che passa
ruzzolando sulle pietre.
Mi circondano le ore e le onde,
non so dove mi trascinano,
ignoro la mia fine e il mio inizio,
vado attraversando il mio corpo come l’arcata di un ponte.
Le nubi mi seguono tra i campi
con caldi riflessi.
Svio tra gli alberi, tra le ombre;
portai alla terra soltanto questo rumore
per attraversare il mondo,
l’ho sentito crescere dal fondo delle mie vene.
Queste voci che dico
hanno rotolato per secoli purificandosi nelle sue acque,
fuori dal tempo.
Sono echi dei morti che mi nominano
e mi rincorrono come pesci.
Io sono il mio fiume, il mio chiaro fiume che passa
e senza tregua mi trascina.
So che esiste un vascello
che passa alle mie spalle;
le sue vele palpo nel sogno;
seguo la traccia che lascia al passaggio,
però non so che cerca nel mio solco
né quando arriveremo
nemmeno chi c’è a bordo.


I poeti hanno fiumi, non solo gli oceani, non solo il mare. Perché l’acqua ci avvolge con questa grazia? È forse solo davvero il ricordo del grembo materno che ci ha cullato? Amo questa deriva di pensieri e parole che condivido con il misterioso architetto intento a scrivere a Soledad.

- Tieni – gli dico – prendi anche questa poesia. E disegna una coppia di stelle binarie per te e Soledad e una per me e il poeta.
Da soli non andremo lontano, non sapremo parlare di questi fiumi, del tempo e della memoria.


Arte poetica

Guardare il fiume fatto di tempo e d’acqua

e ricordare che il tempo è un altro fiume.
Sapere che ci perdiamo come il fiume
e che passano i volti come l’acqua.

Sentire che la veglia è un altro sogno,

sogno di non sognare e la morte
che il nostro corpo teme è questa morte
di ogni notte, che chiamiamo sonno.

Vedere nel giorno o nell’anno un simbolo

dei giorni dell’uomo e dei suoi anni,
trasfigurare l’oltraggio degli anni
in una musica, un rumore, un simbolo,

vedere nella morte il sonno, nel tramonto

un triste oro, questo è la poesia
che è povera e immortale. La poesia
si volge come l’aurora e il tramonto.

Talora nel crepuscolo un volto

ci guarda dal fondo di uno specchio;
l’arte deve esser come quello specchio
che ci rivela il nostro proprio volto.

Ulisse, dicono, stanco di prodigi,

pianse d’amore, scorgendo la sua Itaca
umile e verde. L’arte è quell’Itaca
di verde eternità, non di prodigi.

È anche come il fiume senza fine

che passa e resta; è specchio di uno stesso
Eraclito incostante, uno e diverso
sempre, come il fiume senza fine.


Un fiume senza fine, il ritratto dell’eternità, le stelle che risplendono nei tuoi occhi ne sono lo specchio.


La prima poesia è di Eugenio Montejo, tradotta da Alessio Brandolini per il numero 17 della rivista fili d'aquilone.
La seconda poesia è di J. L. Borges


Yo soy mi río


Yo soy mi río, mi claro río que pasa
a tumbos en las piedras.
Me circundan las horas y las ondas,
no sé adónde me arrastran,
desconozco mi fin y mi comienzo,
voy cruzando mi cuerpo como el arco de un puente.
Las nubes me siguen por los campos
con cálidos reflejos.
Entre los árboles derivo, entre los hombres;
sólo traje a la tierra este rumor
para cruzar el mundo,
lo he sentido crecer al fondo de mis venas.
Estas voces que digo
han rodado por siglos puliéndose en sus aguas,
fuera del tiempo.
Son ecos de los muertos que me nombran
y me recorren como peces.
Yo soy mi río, mi claro río que pasa
y me lleva sin tregua.
Sé que existe un navío
que cruza a mis espaldas;
palpo sus velas en mi sueño;
sigo la estela que deja en su camino,
pero no sé qué busca entre mi cauce
ni quién va a bordo
ni cuándo llegaremos.





Arte Poética

Mirar el río hecho de tiempo y agua 

y recordar que el tiempo es otro río, 
saber que nos perdemos como el río 
y que los rostros pasan como el agua. 

Sentir que la vigilia es otro sueño 

que sueña no soñar y que la muerte 
que teme nuestra carne es esa muerte 
de cada noche, que se llama sueño. 

Ver en el día o en el año un símbolo 

de los días del hombre y de sus años, 
convertir el ultraje de los años 
en una música, un rumor y un símbolo, 

ver en la muerte el sueño, en el ocaso 

un triste oro, tal es la poesía 
que es inmortal y pobre. La poesía 
vuelve como la aurora y el ocaso. 

A veces en las tardes una cara 

nos mira desde el fondo de un espejo; 
el arte debe ser como ese espejo 
que nos revela nuestra propia cara. 

Cuentan que Ulises, harto de prodigios, 

lloró de amor al divisar su Itaca 
verde y humilde. El arte es esa Itaca 
de verde eternidad, no de prodigios. 

También es como el río interminable 

que pasa y queda y es cristal de un mismo 
Heráclito inconstante, que es el mismo 
y es otro, como el río interminable. 


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