C’era un tempo in cui gli dèi e gli uomini dormivano sotto lo stesso
cielo, riposavano all’ombra degli ulivi, si nutrivano di latte di capra e miele,
di olive e fichi.
Erano mossi, uomini e dèi, dalle stesse passioni, dagli stessi furori,
dalle stesse illusioni.
Solo due erano le cose che li distinguevano.
L’immortalità, mi direte subito. Certo ma prima dell’immortalità, c’era
un’altra cosa, una cosa ancor più stupefacente.
Cambiavano forma come volevano, cambiavano forma come volevano.
Diventavano pioggia, albero, toro, costellazione. Senza mai perdere quella
unicità che li contraddistingueva.
Dunque, la materia era uno stato provvisorio e volatile, per questo gli
dèi erano immortali e gli esseri umani no.
Avremmo potuto imparare se ce lo avessero insegnato? Forse sì. Ma a loro
non interessava la nostra immortalità.
Si annoiavano e si annoiano ancora. Per questo l’infinita combinazione
dei nostri geni aumenta le loro possibilità di divertimento.
Vi chiederete come si manifestano tra noi ora che abbiamo dimenticato i
loro nomi antichi. Non è impossibile riconoscerli tra i divi del cinema e della
musica, tra i politici e gli opinionisti. Di questi tempi anche tra gli influencer, i famosi per essere famosi.
Sono avidi, ingordi e insaziabili gli dèi. Hanno fame della nostra
giovinezza, del nostro stupore, esistono perché noi umani esistiamo. Deve essere
insopportabile una giovinezza millenaria che può rinnovarsi in qualunque
momento. A noi il dono dell’invecchiare, il dono dell’essere uguali e diversi giorno
dopo giorno.
Dentro siamo sempre uguali, noi, ci riconosciamo. È il corpo che muta in
maniera inarrestabile e ci tradisce.
Un corpo mortale che è l’unica porta verso l’eternità. Che gli dèi non
conosceranno mai. Perché non possono dismettere i loro corpi eternamente
giovani per accettare il mistero dietro la soglia.
Se ci annoiamo noi, nelle nostre spoglie mortali, quanto può essere
noiosa la vita per loro che vivono di istanti e non conoscono il nostro male
umano ma solo quello divino?
All’ombra della quercia centenaria, in una domenica d’estate, di questo
parlavamo noi abitanti della Casa delle Parole.
Così ho aperto il mio taccuino e ho letto questa poesia.
Il dolore si nasconde tra le pieghe
della luce
Il
tempo è spezzato in due parti divise
di
netto dall’ora meridiana: il mattino è
acqua,
sabbia e rocce, il pomeriggio
si
riposa nella frescura del giardino,
nelle
ore d’ombra rubate al melograno
e alle
mie parole. Non cerco scuse per
dire
come il dolore si nasconde tra
le
pieghe della luce. Ogni finzione è
vera se
il sole non mente, se sfioro
l’acqua
e sto nel giardino, mentre solo
il
canto delle cicale scolpisce questo
giorno
chiuso di un’estate invincibile.
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