domenica 28 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/112: il canto delle cicale scolpisce il giorno di questa invincibile estate


C’era un tempo in cui gli dèi e gli uomini dormivano sotto lo stesso cielo, riposavano all’ombra degli ulivi, si nutrivano di latte di capra e miele, di olive e fichi.

 

Erano mossi, uomini e dèi, dalle stesse passioni, dagli stessi furori, dalle stesse illusioni.


Solo due erano le cose che li distinguevano.

 

L’immortalità, mi direte subito. Certo ma prima dell’immortalità, c’era un’altra cosa, una cosa ancor più stupefacente.

 

Cambiavano forma come volevano, cambiavano forma come volevano. Diventavano pioggia, albero, toro, costellazione. Senza mai perdere quella unicità che li contraddistingueva.

 

Dunque, la materia era uno stato provvisorio e volatile, per questo gli dèi erano immortali e gli esseri umani no.

 

Avremmo potuto imparare se ce lo avessero insegnato? Forse sì. Ma a loro non interessava la nostra immortalità.

 

Si annoiavano e si annoiano ancora. Per questo l’infinita combinazione dei nostri geni aumenta le loro possibilità di divertimento.

 

Vi chiederete come si manifestano tra noi ora che abbiamo dimenticato i loro nomi antichi. Non è impossibile riconoscerli tra i divi del cinema e della musica, tra i politici e gli opinionisti. Di questi tempi anche tra gli influencer, i famosi per essere famosi.

 

Sono avidi, ingordi e insaziabili gli dèi. Hanno fame della nostra giovinezza, del nostro stupore, esistono perché noi umani esistiamo. Deve essere insopportabile una giovinezza millenaria che può rinnovarsi in qualunque momento. A noi il dono dell’invecchiare, il dono dell’essere uguali e diversi giorno dopo giorno.

 

Dentro siamo sempre uguali, noi, ci riconosciamo. È il corpo che muta in maniera inarrestabile e ci tradisce.

 

Un corpo mortale che è l’unica porta verso l’eternità. Che gli dèi non conosceranno mai. Perché non possono dismettere i loro corpi eternamente giovani per accettare il mistero dietro la soglia.

 

Se ci annoiamo noi, nelle nostre spoglie mortali, quanto può essere noiosa la vita per loro che vivono di istanti e non conoscono il nostro male umano ma solo quello divino?

 

All’ombra della quercia centenaria, in una domenica d’estate, di questo parlavamo noi abitanti della Casa delle Parole.

 

Così ho aperto il mio taccuino e ho letto questa poesia.

 


Il dolore si nasconde tra le pieghe della luce

Il tempo è spezzato in due parti divise
di netto dall’ora meridiana: il mattino è
acqua, sabbia e rocce, il pomeriggio
si riposa nella frescura del giardino,
nelle ore d’ombra rubate al melograno
e alle mie parole. Non cerco scuse per
dire come il dolore si nasconde tra
le pieghe della luce. Ogni finzione è
vera se il sole non mente, se sfioro
l’acqua e sto nel giardino, mentre solo
il canto delle cicale scolpisce questo
giorno chiuso di un’estate invincibile.

 

 

Millenni a parlare delle stesse cose, a cerca risposte e nuove domande. Siamo sempre gli stessi, non cambiamo, siamo lo specchio degli dèi, per questo ci inseguono ancora.

 

Cercano attraverso noi di varcare la porta dell’eternità, ma noi possiamo solo offrire questa estate infinita che non conosce la sconfitta, perché abita in noi e dell’eternità è il preludio.

 

E poi c’è il vento - dice il sapiente guerriero che ha molto navigato - ascoltate cosa dice un vecchio marinaio.

 

“Il ‘levantazzo’ è il vento di scirocco-levante quando diventa acceso, come dicono gli uomini delle barche, nei pomeriggi infocati. È il vento che viene dalla parte più viva dell’Adriatico, da dove sorge il sole. Un vento carico di luce e di riflessi, che ravviva il mare di onde frequenti e irte di schiuma, che riempie di colore le nostre scogliere, che porta i semi del mirto e del rosmarino, che matura i fichidindia e l’uva e insanguina di papaveri i campi di grano, che cuoce la fronte e la nuca dei pescatori, che feconda il mare di nuovi pesci. Qui giù il sole sorge dal mare e peschiamo negli intervalli fra la tramontana – un vento che non ci appartiene, che ci porta solo freddo e mare grigio e un gelo di montagne, di altre terre troppo lontane da noi – e il levante che è il mare della Grecia, dei miti, dei pastori e delle sirene, dei delfini e dei tonni, il vento della nostra civiltà antichissima, su cui aprirono le vele Ulisse e Diomede, soffia sempre su di noi, e anche se sono passati i millenni, se la Grecia è solo rovine, da levante continueremo ad attingere calore e vita. Ma è difficile spiegare cos'è il ‘levantazzo’. Diciamo che è anche la gioia di immaginare Agiostrati, o di leggere l’Odissea e di pensare che esistono ancora le sirene”. 

 

Dovremmo tornare al nostro mare e se non possiamo andare da lui portarlo qui nella nostra terra dell’immaginazione. Dove c’è il mare torna il vento. Dove ci sono mare e vento c’è la Grecia. La Grecia non è una terra, non solo, ma uno stato d’animo. È terra interiore che con le parole possiamo ricreare qui sulle nostre rive.

 

Ora che il sole volge a Occidente e la brezza ci guida andiamo in spiaggia. Le tre sorelle non si vedono, il ragazzo gioca in acqua con i delfini.

 

Con che nome dobbiamo chiamarti Odisseo perché tu venga alle nostre rive e ci racconti la tua storia?

 

 

 

La poesia è mia ed è tratta dalla raccolta Un’estate invincibile, Atì editore 2019.

 

La citazione è di Antonio Mallardi, Levantazzo, Leonardo da Vinci editore 1961


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