In questi anni di crisi e di disastri prolungati, di persone che scompaiono dalle nostre vite per molteplici motivi, di accadimenti epocali, diventa sempre più difficile dare un senso al nostro essere nel mondo, non solo al nostro stare al mondo. Se la vita è una tessitura continua, un accumulo di eventi e relazioni, accade all’improvviso che un filo sfugga alla trama, che il senso diventi debole se non addirittura assente. La vita, gli eventi, ci sottraggono quello che ci avevano offerto. A volte sono perdite senza conseguenza, perché le persone perdute non erano più poi così importanti per noi. A volte sono perdite così enormi, inguaribili se non col tempo. Il dolore cresce in noi, ci divora dall’interno sino a quando non ha creato lo spazio adeguato a farne una tana. Perché ci sono dolori che diventano parte di noi, come se andassero a sostituire oggetti interni, se non addirittura pezzi d’anima. Un grande silenzio, un silenzio primordiale accompagna queste perdite. Diventiamo sordi e ciechi, il nostro sguardo si fa impotente. Il contatto con la natura può essere un balsamo che ci aiuta a riprendere i contatti con il mondo e con i nostri sensi. Anche oggi è René Char che me ne fornisce una dimostrazione:
Talvolta il profilo di un puledro,
di un bambino in lontananza,
s’avvicina a esplorare il mio sguardo,
scavalca il muro del mio timore.
È allora che, sotto gli alberi,
riprende a mormorare
la sorgente.
Lo sguardo è in grado di rimettere a fuoco il
mondo, l’udito si risveglia, il silenzio diventa sottile e si ritira nella sua
tana di fili di ragnatela. Siamo vivi e nel dolore del mondo, viviamo e
respiriamo, perché il pur nel dolore la bellezza da qualche parte resiste,
sempre.
Oggi è lunedì 4 aprile del terzo anno senza
Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 757 si è immersa nella
sorgente e ascolta il canto dell’acqua.
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