Storie dell’Avvento/16. Il richiamo della foresta
Ecco, aveva finito di scrivere la terza
storia di Natale e l’aveva mandata alla rivista. Decise di non tornare in
città, di non andare a nessuno dei numerosi party natalizi dove l’avevano
invitata. Di solito si divertiva, ma quell’anno stava apprezzando più che mai
la solitudine. Si chiese se la mancanza di un compagno, di figli e nipoti la
facesse soffrire. Sorrise, come se qualcuno potesse vederla. Quella solitudine
l’aveva difesa ferocemente, anno dopo anno, era per lei l’unica condizione
possibile per una vita creativa. Ogni tanto doveva sparire dal mondo, ritirarsi
nelle sue stanze dell’immaginazione e stare a vedere cosa sarebbe accaduto. Era
quello che stava facendo e ne era contenta. Si alzò, si stirò la schiena, l’alba
stava arrivando con il suo passo di leopardo delle nevi. Sorrise di nuovo e la
belva nella sua mente ruggì. Era proprio ora di andare a dormire. Fu un sonno
bianco, senza immagini e senza sogni, riposante e breve. Quando si alzò era
quasi mezzogiorno, decise di andare giù fino al lago prima di pranzare. Il sole
faticava a oltrepassare la coltre di nuvole grigie e compatte che si stendevano
a perdita d’occhio. Mentre era quasi arrivata nel suo angolo di osservazione,
sentì una specie di ruggito, tre spari in rapida sequenza e poi un silenzio
innaturale. Chi era l’idiota che era andato a caccia vicino a casa sua? Quando arrivò
nella radura che aveva individuato senza fatica, il grande cervo bianco stava
fronteggiando l’enorme orso bruno che, però, non osava attaccarlo. Accasciato sulla
neve e ben visibile, perché vestito di pelli come un indiano, stava un uomo
dalla corporatura imponente. Sembrava addormentato, ma avvicinandosi vide che
una chiazza rossa di sangue si allargava all’altezza della sua testa. Dopo l’ennesimo
bramito, il grande cervo si slanciò in una corsa a zig tra gli alberi inseguito
dall’orso. Parker poté così avvicinarsi all’uomo, anche se era quasi certa che
fosse morto. Il segno degli artigli dell’orso partiva dalla fronte in alto a
destra, sopra la tempia, sfiorava il sopracciglio sinistro e arrivava sino all’orecchio.
Era un segno superficiale che andava a sovrapporsi ad altre cicatrici anche più
estese e profonde che l’uomo aveva sul viso. Era ancora abbastanza giovane, più
giovane di quanto non lo fosse lei, forse. Gli strofinò il viso con una
manciata di neve e l’uomo emise un lamento. Il sangue copioso era uscito dal
cuoio capelluto e non si trovava certo in pericolo di vita. Prima che potessero
aprire bocca, il grande cervo bianco era tornato al galoppo e li aveva
affiancati. Li seguì sino alla casa, anche se Parker aveva quasi l’impressione
che lui li stesse scortando per proteggerli. Dopo che lei ebbe aperto la porta
di casa, non fece in tempo a voltarsi che il cervo era sparito, mentre un
branco di lupi era appena uscito dalla foresta, ma non con l’intenzione di
avvicinarsi a loro. Dovevano avere già mangiato perché i giovani lupi si
rotolavano nella neve, si rincorrevano sotto lo sguardo delle due madri e i due
maschi non si davano pena di rimetterli in fila. “Grazie per avermi salvato, io
sono Jack, e voi siete?”. C’era qualcosa di antico in lui, forse il modo di
parlare, le maniere un po’ affettate, chissà. “Io sono Parker, e non c’è di che,
ma credo sia stato il cervo bianco a salvare entrambi”. Andò a prendere la
cassetta del pronto soccorso, mai usata prima, e gli disinfettò e bendò la
ferita. Aveva davvero un che di selvatico quel cacciatore che sembrava uscito
da un racconto di Jack London. Anzi, assomigliava a Jack London, almeno così le
sembrava, soprattutto per via dei riccioli che gli sfuggivano sulla fronte. “Sai
che mi ricordi un altro Jack? Jack London per la precisione”.
Lui spalancò occhi e bocca: “Ma io mi chiamo
Jack London. E non credo di avere il piacere di conoscervi Miss”. Ma come
dannazione parlava quello zotico?
Ecco che è arrivato giovedì 23 dicembre del
secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 655 è pronta a tornare nella
foresta, dove vivono scrittori e immaginazioni.
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