Storie dell’Avvento/1. Mi chiamo Anja
Erano solo le cinque del pomeriggio, ma tutta
la città era avvolta nella nebbia. Agnieszka chiuse l’armadietto di metallo
dove teneva gli abiti da lavoro cercando di tenere a bada il tremore delle
mani. Doveva immaginare che il mattino successivo alle otto sarebbe ritornata
in fabbrica e poi nell’ufficio delle contabili a battere al computer fatture e
bolle di consegna per tutto il giorno. A sua madre aveva detto che sarebbe
andata a dormire a casa di Ewa dopo il cinema. Loro due abitavano nella
periferia opposta di Cracovia e non era la prima volta che l’amica l’avrebbe
ospitata. Ma quella volta Ewa non sapeva nulla, dopo il lavoro Agnieszka aveva
appuntamento con Janusz che aveva appena finito il turno anche lui. Si
sarebbero visti nell’antica birreria di Podgorze dove già erano stati altre
volte. Neanche Janusz sapeva nulla e lei voleva vederlo un’ultima volta, dopo
avere continuato a non dire nulla della sua scelta. La sirena della fabbrica
ululò per la terza volta nella nebbia e, come sempre, la ragazza immaginò di
abitare già in riva al Baltico, in una città portuale in mezzo a tanti
stranieri dove nessuno l’avrebbe notata. Il tremore alle mani le era passato e
si rallegrò per il sangue freddo, anche se aveva spesso pensato che il suo
sangue fosse tiepido più che freddo. Non c’era davvero nessuno che la potesse
tenere legata alla città natale. Non sua madre, una donna silenziosa persa nei
rimpianti della propria gioventù durante gli anni di Danzica e Solidarność. Suo
padre doveva averlo conosciuto proprio in quel periodo, anche se non era mai
riuscita a farsi raccontare niente. Riusciva a immaginarlo quel padre, le
bastava guardarsi allo specchio e accorciare i capelli ricci, ombreggiare le
guance e il mento con una fitta barba ed ecco che paparino emergeva dal passato
che lei non conosceva. A sua madre non assomigliava neanche da bambina, quindi
doveva essere tutta suo padre. Le poche amiche, a parte Ewa, erano soprattutto
colleghe dell’ufficio, non le sarebbero mancate. E Janusz? Lui lo conosceva da
poco, si piacevano, ma non era innamorata, e la vita che stava facendo non le
piaceva più. Doveva partire, lo sapeva di dover partire e quella notte lo
avrebbe fatto. Aveva portato il solito zainetto da lavoro con un paio di
pantaloni e un maglioncino, un libro di Adam Zagajeveski, i dollari che andava
accumulando da quando aveva iniziato a lavorare cambiandoli al mercato nero. Aveva
deciso di andare a piedi al locale dove aveva appuntamento con Janusz, aveva
capito di dover partire la settimana precedente, quando stava a leggere le
solite notizie su internet e si era ritrovata a battere i pugni chiusi sul
ripiano del tavolo. Si era anche fatta male, sua madre non aveva sentito
niente, presa com’era a guardare uno dei programmi sui nuovi talenti della
canzone che tanto le piacevano. Cosa aveva che non andava lei? Perché non era
mai contenta? Perché non era mai stata contenta della sua vita? La maggior
parte della gente non solo si accontentava, ma era contenta della vita che
faceva. Anche se i giorni si ripetevano uguali uno dopo l’altro. “È la vita,
figlia mia”, le diceva sua madre. Vita? Respirare, alzarsi, lavorare, tornare a
casa, guardare la televisione? È vita questa? Ma che razza di vita?
Arrivò alla Ślepa Latarnia in ritardo e Janusz non c’era e non arrivò neanche
nella mezz’ora successiva. Forse le aveva mandato un messaggio sul cellulare,
ma lei lo aveva lasciato apposta a casa. Non voleva essere rintracciata e le
tracce del cellulare erano le prime che avrebbero seguito, quando sua madre
sarebbe andata a denunciare la sua scomparsa. Uscì dal locale e si fermò a
guardare le luci riflesse nelle acque della Vistola. Pensò che neanche il fiume
le sarebbe mancato, era ora di andare al luogo dell’appuntamento. Il passaporto,
tedesco e falso, era nel portafoglio. Se anche l’avessero fermata avrebbe
risposto in un tedesco impeccabile, a qualcosa sarebbe pur servito l’avere
studiato le lingue per così tanti anni. I suoi documenti autentici li aveva
fatti a pezzetti e gettati in acqua non appena uscita dal lavoro, la carta di
credito era nel cassetto della scrivania. Sperava che pensassero a un rapimento
finito male. Scosse i lunghi ricci castani e insieme anche il nome: Agnieszka aveva
cessato di esistere e dalla sua mente era nata Anja. Non tutti avevano la
fortuna di nascere due volte come lei aveva scelto di fare. Alle spalle della
fabbrica di Oskar Schindler, la BMW le fece il segnale concordato con i fanali.
Anja accelerò il passo, il lungo viaggio stava iniziando.
Questa Cronaca 636 di sabato 4 dicembre del secondo anno senza Carnevale inaugura una serie di racconti dell’Avvento che mi è venuta in mente in questi giorni, mentre lasciavo correre i pensieri a caccia di idee per le Cronache. Spero di avervi incuriositi.
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