domenica 19 dicembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/651. Un grande talento per la solitudine e il silenzio

 

Storie dell’Avvento/12. Dove una donna pensa e guarda la superficie scintillante del lago ghiacciato

 

Tutto era bianco e scintillante intorno alla casa, così decise di uscire a fare una passeggiata sino al lago. Era coperta come solo in quel luogo era necessario fare, aveva messo anche occhiali da sole e un berretto di lana multistrato e multicolore. L’aria era cristallina e pungente, le piaceva godersi tutto quel nitore, compreso il suono meraviglioso di quella parola e le immagini che subito le evocava. Sentiva la neve scricchiolare sotto i suoi passi e candele di ghiaccio erano appese ai rami verdi dei pini e ai rami spogli delle betulle. Se i pini facevano tanto Monti Adirondacks, le betulle la trasportavano nella steppa siberiana e avrebbe voluto avere una slitta trainata dai cavalli, coperte di pelliccia e una meta difficilissima da raggiungere. Non fu difficile arrivare al lago, la superficie era ghiacciata e scintillante come le rive intorno. Un viaggiatore inesperto avrebbe potuto non accorgersi di essere arrivato a camminare sulla superficie dell’acqua, ma lei conosceva quel luogo dai tempi dell’infanzia, poteva muoversi alla cieca, riconoscere gli alberi dalla corteccia, la stagione dal profumo dell’aria. Non era la prima volta che andava a rifugiarsi da sola nel capanno costruito dai suoi nonni, ereditato da sua madre e poi ceduto a lei, quando la donna si era trasferita a vivere all’estero con il secondo marito, dieci anni dopo essere rimasta vedova. Era davvero il luogo dell’infanzia, dei giochi sfrenati d’estate, del nonno che le insegnava l’arte paziente della pesca, della nonna che le insegnava a intrecciare ceste e a raccogliere bacche e frutti di bosco che diventavano squisite marmellate e crostate indimenticabili. Si fermò a riflettere di quanto le piacesse usare gli aggettivi anche quando pensava. Era qualcosa che faceva d’istinto, sapeva che ogni sostantivo poteva brillare di maggior luce con accanto i giusti aggettivi. Sul lago Moran aveva trascorso i dieci anni felici dell’infanzia, in ogni stagione c’erano cose interessanti da fare, oltre alla pesca, nuotare e andare in canoa d’estate, raccogliere funghi e pigne in autunno, usmare i germogli in primavera, raccogliere i bucaneve, appiccicarsi le dita con le resina delle conifere e con il miele dei favi che erano sfuggiti agli orsi che abitavano nel fitto della foresta, così si diceva, ma che lei non aveva mai visto. L’anno in cui morì suo padre, a causa di un banale incidente d’auto, mamma si rifugiò con lei nel capanno per tutta l’estate, perché non voleva vedere nessuno, perché il dolore rende ancora più fragili e vulnerabili, bisogna proteggersi dal mondo e dai finti amici che del dolore altrui si nutrono. Proprio così le aveva detto mamma, anche se non aveva fatto nomi in merito, e questa affermazione aveva nutrito in lei una naturale diffidenza nei confronti degli altri esseri umani. Nonna le diceva che aveva un carattere da gatto, e di fidarsi del suo istinto. Per questo aveva deciso di non portare mai nessun uomo a trascorrere del tempo con lei nel capanno. Anzi, la maggior parte di quelli con cui ebbe una relazione neanche lo avevano saputo che quando spariva andava a rifugiarsi laggiù, solo pensavano che lei fosse in viaggio per lavoro. L’altra cosa che nessuno di quegli uomini sapeva, e solo poche, fidatissime amiche conoscevano, era che lei fosse una scrittrice tra le più vendute del paese. Aveva scelto un nom de plume all’inizio della carriera, quando ancora non sapeva bene cosa davvero le piacesse fare nella vita. A vent’anni, dieci anni dopo la morte del padre, sola nella grande casa del Village, aveva iniziato a scrivere racconti e a inviarli a tutte le riviste che conosceva, cui era abbonata sua madre, grande lettrice e donna curiosa. Aveva specificato nelle lettere di accompagnamento di voler essere pubblicata con il nome di Sylvia Parker Bishop, il nome e i cognomi di tre delle autrici più amate. Non aveva alcun istinto per il suicidio, né per l’autodistruzione, due tentazioni che sembravano imprescindibili dal talento letterario, ma aveva un grande talento per la solitudine e per il silenzio. Questo faceva per lei la differenza, questa era la cifra della sua scrittura. Ai racconti della ricca e interessante vita della sua città, alternava storie di viaggio, di fughe e di ritorni. La maggior parte della gente voleva scappare dalla propria vita, lo aveva imparato stando seduta per ore nel bistrot vagamente parigino dove passava il tempo ad ascoltare i vicini di tavolo fingendo di stare leggendo, o a scrivere quei racconti scintillanti, sì proprio scintillanti, che rendevano giustizia all’atmosfera dell’ambiente artistico della capitale del mondo e allo spirito del tempo. Erano ancora gli anni Ottanta del Ventesimo secolo, l’adrenalina dei due decenni precedenti ancora scorreva nelle vene delle persone e delle città. Il male sarebbe arrivato nei decenni successivi, l’epidemia di AIDS, le guerre in Iraq e Afghanistan, l’attentato alle torri gemelle, la crisi finanziaria, le ondate migratorie che premevano sui confini, gli uragani fuori stagione, poi la pandemia, arrivata come un assassino invisibile in un romanzo che sembrava di color rosa e non lo era. Anche le sue storie sembravano storie di famiglie e persone felici, ma non lo erano mai davvero, mai tutti, mai insieme. Succedeva sempre quella piccola cosa, Anna Karenina che nota le orecchie del marito o Gabriel che sente la neve cadere alla fine di Gente di Dublino. Con gli anni era diventata un’esperta anche nel fare bilanci sommari e sempre provvisori della sua vita e le riusciva proprio bene. Cominciava ad avere freddo e decise di tornare al capanno.

 

Oggi è domenica 19 dicembre del secondo anno senza Carnevale e questa scrittrice misteriosa è venuta a cercarmi questa mattina, mentre ero ancora intrappolato in un affollato dormiveglia. Così ho deciso di condividere con questa Cronaca 651 le sue riflessioni in riva al lago.

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