Storie dell’Avvento/12. Dove una donna pensa
e guarda la superficie scintillante del lago ghiacciato
Tutto era bianco e scintillante intorno alla
casa, così decise di uscire a fare una passeggiata sino al lago. Era coperta
come solo in quel luogo era necessario fare, aveva messo anche occhiali da sole
e un berretto di lana multistrato e multicolore. L’aria era cristallina e
pungente, le piaceva godersi tutto quel nitore, compreso il suono meraviglioso
di quella parola e le immagini che subito le evocava. Sentiva la neve
scricchiolare sotto i suoi passi e candele di ghiaccio erano appese ai rami
verdi dei pini e ai rami spogli delle betulle. Se i pini facevano tanto Monti Adirondacks,
le betulle la trasportavano nella steppa siberiana e avrebbe voluto avere una
slitta trainata dai cavalli, coperte di pelliccia e una meta difficilissima da
raggiungere. Non fu difficile arrivare al lago, la superficie era ghiacciata e
scintillante come le rive intorno. Un viaggiatore inesperto avrebbe potuto non
accorgersi di essere arrivato a camminare sulla superficie dell’acqua, ma lei
conosceva quel luogo dai tempi dell’infanzia, poteva muoversi alla cieca,
riconoscere gli alberi dalla corteccia, la stagione dal profumo dell’aria. Non
era la prima volta che andava a rifugiarsi da sola nel capanno costruito dai suoi
nonni, ereditato da sua madre e poi ceduto a lei, quando la donna si era
trasferita a vivere all’estero con il secondo marito, dieci anni dopo essere
rimasta vedova. Era davvero il luogo dell’infanzia, dei giochi sfrenati
d’estate, del nonno che le insegnava l’arte paziente della pesca, della nonna
che le insegnava a intrecciare ceste e a raccogliere bacche e frutti di bosco
che diventavano squisite marmellate e crostate indimenticabili. Si fermò a
riflettere di quanto le piacesse usare gli aggettivi anche quando pensava. Era qualcosa
che faceva d’istinto, sapeva che ogni sostantivo poteva brillare di maggior
luce con accanto i giusti aggettivi. Sul lago Moran aveva trascorso i dieci
anni felici dell’infanzia, in ogni stagione c’erano cose interessanti da fare,
oltre alla pesca, nuotare e andare in canoa d’estate, raccogliere funghi e
pigne in autunno, usmare i germogli in primavera, raccogliere i bucaneve,
appiccicarsi le dita con le resina delle conifere e con il miele dei favi che
erano sfuggiti agli orsi che abitavano nel fitto della foresta, così si diceva,
ma che lei non aveva mai visto. L’anno in cui morì suo padre, a causa di un
banale incidente d’auto, mamma si rifugiò con lei nel capanno per tutta l’estate,
perché non voleva vedere nessuno, perché il dolore rende ancora più fragili e
vulnerabili, bisogna proteggersi dal mondo e dai finti amici che del dolore
altrui si nutrono. Proprio così le aveva detto mamma, anche se non aveva fatto
nomi in merito, e questa affermazione aveva nutrito in lei una naturale
diffidenza nei confronti degli altri esseri umani. Nonna le diceva che aveva un
carattere da gatto, e di fidarsi del suo istinto. Per questo aveva deciso di
non portare mai nessun uomo a trascorrere del tempo con lei nel capanno. Anzi,
la maggior parte di quelli con cui ebbe una relazione neanche lo avevano saputo
che quando spariva andava a rifugiarsi laggiù, solo pensavano che lei fosse in
viaggio per lavoro. L’altra cosa che nessuno di quegli uomini sapeva, e solo
poche, fidatissime amiche conoscevano, era che lei fosse una scrittrice tra le
più vendute del paese. Aveva scelto un nom de plume all’inizio della carriera,
quando ancora non sapeva bene cosa davvero le piacesse fare nella vita. A vent’anni,
dieci anni dopo la morte del padre, sola nella grande casa del Village, aveva
iniziato a scrivere racconti e a inviarli a tutte le riviste che conosceva, cui
era abbonata sua madre, grande lettrice e donna curiosa. Aveva specificato
nelle lettere di accompagnamento di voler essere pubblicata con il nome di Sylvia
Parker Bishop, il nome e i cognomi di tre delle autrici più amate. Non aveva
alcun istinto per il suicidio, né per l’autodistruzione, due tentazioni che
sembravano imprescindibili dal talento letterario, ma aveva un grande talento
per la solitudine e per il silenzio. Questo faceva per lei la differenza,
questa era la cifra della sua scrittura. Ai racconti della ricca e interessante
vita della sua città, alternava storie di viaggio, di fughe e di ritorni. La maggior
parte della gente voleva scappare dalla propria vita, lo aveva imparato stando
seduta per ore nel bistrot vagamente parigino dove passava il tempo ad
ascoltare i vicini di tavolo fingendo di stare leggendo, o a scrivere quei racconti
scintillanti, sì proprio scintillanti, che rendevano giustizia all’atmosfera
dell’ambiente artistico della capitale del mondo e allo spirito del tempo. Erano
ancora gli anni Ottanta del Ventesimo secolo, l’adrenalina dei due decenni
precedenti ancora scorreva nelle vene delle persone e delle città. Il male
sarebbe arrivato nei decenni successivi, l’epidemia di AIDS, le guerre in Iraq
e Afghanistan, l’attentato alle torri gemelle, la crisi finanziaria, le ondate
migratorie che premevano sui confini, gli uragani fuori stagione, poi la
pandemia, arrivata come un assassino invisibile in un romanzo che sembrava di
color rosa e non lo era. Anche le sue storie sembravano storie di famiglie e
persone felici, ma non lo erano mai davvero, mai tutti, mai insieme. Succedeva sempre
quella piccola cosa, Anna Karenina che nota le orecchie del marito o Gabriel
che sente la neve cadere alla fine di Gente
di Dublino. Con gli anni era diventata un’esperta anche nel fare bilanci
sommari e sempre provvisori della sua vita e le riusciva proprio bene. Cominciava
ad avere freddo e decise di tornare al capanno.
Oggi è domenica 19 dicembre del secondo anno
senza Carnevale e questa scrittrice misteriosa è venuta a cercarmi questa
mattina, mentre ero ancora intrappolato in un affollato dormiveglia. Così ho
deciso di condividere con questa Cronaca 651 le sue riflessioni in riva al
lago.
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