Il primo giorno di maggio l’ho sempre salutato con allegria, per ragioni personali, perché è il giorno dell’anniversario di matrimonio dei miei genitori e di mio fratello e mia cognata; perché era il mese che annunciava l’avvicinarsi della fine della scuola e il mese della fioritura piena delle rose. Ma anche il giorno che festeggia i lavoratori, il giorno delle bandiere rosse, delle manifestazioni di piazza, dei canti collettivi. Per essere una Repubblica fondata sul lavoro, quella italiana non ne ha avuta e non ne molta di cura per il lavoro e per i lavoratori. La strage dei caduti è infinita e pressoché quotidiana, la destrutturazione dei contratti collettivi, le retribuzioni scandalosamente basse, ormai non solo ai giovani, il senso stesso del lavorare sono messi in continua discussione dalla nostra società. Le influencer sui social, sono soprattutto ragazze, trascorrono la loro vita a vestirsi, truccarsi e mettersi in mostra, manichini viventi, invidiate e odiate dalle persone comuni. Le grandi marche hanno ormai da anni etichettato il mondo e ci costringono a pensarci all’interno del recinto, non solo immaginario, costruiti da loghi e slogan. I rider, non tutelati nel loro affannoso lavoro di consegnare cibo a casa a chi non vuole o non ha tempo di cucinare, i giovani che rifiutano le paghe da fame proposte anche da chef e ristoranti famosi, le decine di migliaia di persone che hanno lasciato i vecchi lavori per cambiare vita, perché la pandemia ci ha mostrato quanto la nostra vita possa essere fragile, vulnerabile e breve. Le piattaforme di streaming lamentano una caduta degli abbonati, per forza mi viene da dire, adesso che si può ricominciare a uscire con più agio, che senso ha restare chiusi ancora in casa, cosa che abbiamo fatto per la maggior parte del tempo da ormai ventisei mesi, noi benestanti occidentali che abbiamo potuto lavorare a casa? Il senso del lavoro e del lavorare vanno pensati e ripensati generazione dopo generazione. Il lavoro non può essere solo l’affannosa ricerca dei soldi che ci permettono di sfamarci, vestirci e avere un tetto sopra la testa. La colpa più grande della mia generazione e di quelle che l’hanno immediatamente preceduta e seguita, è avere tolto valore al lavoro con i contratti precari, le retribuzioni ridicole, le prospettive avvilenti. Ma vedo e sento che i giovani hanno modalità diverse di approcciarsi al lavoro, io riesco ancora a sconvolgermi quando sento che qualcuno si licenzia per fare un periodo sabbatico, per cambiare completamente vita, per fare qualcosa di più interessante. Ma io sono un dinosauro novecentesco e, forse, dovrò aggiornare le mie informazioni e imparare a leggere con un altro sguardo quel che accade nel mondo del lavoro.
Comunque sia ecco che questo giorno ancora lo
festeggiamo, e allora viva il lavoro e viva i lavoratori!
Oggi è domenica Primo maggio del terzo anno senza
Carnevale e del primo anno di guerra, questa Cronaca 784 un po’ si pavoneggia
con la sua giacchetta sociologica.
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