La chiarezza non appartiene alle ore dense che circondano
l’ulivo nel sole del mezzogiorno. La troppa luce rende ciechi tanto quanto l’oscurità,
mi disse il pastore seduto all’ombra dell’albero centenario. Senza chiedere se
avessi sete mi porse l’orcio di terracotta dove l’acqua manteneva la freschezza
della fonte. Il campo di grano prossimo alla maturazione era punteggiato di
papaveri rossi e di fiordalisi blu, che una mano sapiente aveva sparso in
maniera tale che ciascun colore avesse il suo spazio e non sovrastasse l’altro.
Il coro delle cicale ancora non era iniziato, ci voleva qualche settimana, e
poi l’estate avrebbe divorato la verdità della primavera, i teneri germogli e
la promessa dei frutti. Dal punto in cui eravamo seduti era facile seguire il
movimento del gregge. Le pecorelle si muovevano placide brucando le erbe sul
confine tra i campi, ma senza toccare il grano. Il cane bianco e nero aveva
poco lavoro perché nessuna si allontanava troppo dalle altre. Eravamo in questo
tempo e in questo luogo e in un tempo remoto e millenario, dove la vita
scorreva guidata solo dalle stagioni e dai frutti della terra, ci guardavamo
intorno, in silenzio, non c’era bisogno di altre parole.
In uno sguardo e in
una voce
Non la notte più scura,
non la luce implacabile
del mezzogiorno. Perché
la regola dello sguardo stava
nel margine dove l’occhio
poteva muoversi senza
cadere nei due baratri che,
pure, lo attiravano. Non
troppa luce, non troppa
ombra, così la poesia
chiama il poeta, così
il silenzio trova rifugio
e ristoro. In uno sguardo
e in una voce, la tua voce.
Mi piace passare queste ore silenziose con questo pastore
che ancora non ha dieci anni, che è intento e serio, un pastorello che un
giorno sarà mio padre.
Oggi è giovedì 5 maggio del terzo anno senza Carnevale e
del primo anno di guerra e questa Cronaca 788 sente tutta la grecità del
momento.
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