Settembre è quasi finito, così ho deciso di salutarlo con un brano dal mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese che ancora oggi continua a raccontare con la sua stessa voce Milano, città che amo e amo sempre più. Non so se ho ancora nostalgia del mondo raccontato in quel capitolo che oggi, mi appare ancora più remoto. Ed è davvero remota, questa Milano che non esiste più se non nei nostri ricordi.
Settembre, al Molinetto del Lorenteggio
Il mese
delle tane. Nell’aria si sente l’odore dell’inverno che si avvicina. Nelle
strade risuonano i passi di chi sta cercando rifugio. Le albe arrivano piano,
ammantate dalle prime foschie. Odore di bagnato, è questo che regalo a
settembre. Fermarsi nell’autogrill al casello di Melegnano, annusare l’aroma
forte della benzina, nei bagni dietro la stazione, quello acre di chi ha
trascorso la notte viaggiando. Entrare nel bar e ordinare un caffè e un
cappuccino, comprare il giornale, leggere i progetti nei visi stanchi degli
altri viaggiatori. Tra poco saranno a Milano, le vacanze sono davvero finite. È
questo l’inizio dell’anno nuovo. Rituali di un mondo in estinzione, si compiono
di nuovo in questo inizio di mese. Riaprono le grandi fabbriche del nord,
benché non si sappia fino a quando. L’aria già pesante si ispessisce ancora di
più. Entrano gli operai, ormai invisibili nelle statistiche e nella nuova
sociologia. Finito il lavoro, finita la fabbrica come luogo di creazione di
identità. Finito il modello fordista, dicono. Chi lo viveva, quel modello, ne
sentirà davvero la mancanza? Non credo, come si può sentire la mancanza di otto
ore di schiena spezzata, a mettere insieme pezzi di oggetti destinati all’usura
e in quei gesti consumare la propria vita? Ma almeno si poteva dire: sono un
operaio dell’Alfa, della Breda, della Marelli, dell’Ansaldo. Ora sono un
cassaintegrato, un pensionato, nessuno. Se non produco non sono nessuno, ecco
la folla degli invisibili che sale, come un’onda di marea, per le vie deserte
della città.
Tra poco riapriranno anche le scuole, il traffico lieviterà come un fungo impazzito, madri frettolose e padri distratti porteranno i figli sino al portone delle elementari. I negozi hanno cambiato di nuovo colori. Ora è tutto un apparire di zaini sgargianti quasi sempre più grandi dei bambini, di diari di eroi dei fumetti, uno in particolare dovrebbe traslocare a Milano, si chiama Dylan e qui in città lo leggono tutti. I suoi fantasmi, i suoi incubi, già ci abitano in questa città.
Riappaiono puntuali anche i venditori ambulanti, tanto dopo un po’ non ci si fa più caso. Riappaiono gli strilloni dei giornali di strada, sono tanti, anche se forse il più famoso è Terre di Mezzo. Le terre abitate dagli invisibili, da quelli che noi vorremmo non vedere. Ma ritornano, indisponenti come coscienze che non si arrendono allo spirito del tempo. Sono terre che i nostri passi rifiutano di calpestare, sono mondi che i nostri cuori rifiutano di conoscere. Ma sono una delle anime di questa città desolata che non spera in nessuna redenzione e cieca annega, nel lavoro e nelle apparenze, la sua umanità dolente. Ma se si ha questo piccolo coraggio, varcare quella soglia, quest’ora che pare avvolta in veli pesanti, può placare le inutili preoccupazioni delle notizie lette sui giornali, dei pettegolezzi variamente mascherati da attualità e cultura che infestano anche i pochi di buon senso. Ecco che uno squarcio si apre sul mondo degli invisibili, un varco in uno degli universi paralleli che popolano questa città. I più avventurosi, degli abitanti visibili della città, frequentano i ristoranti etnici che aumentano di giorno in giorno: eritrei, senegalesi, indiani. Qualcuno riesce anche a stupirsi della povertà di quelle cucine, meglio non andarci più di un paio di volte all'anno.
Ma queste
porte sugli altri universi si chiudono tanto veloci quanto veloci si sono
aperte. A nessuno è dato di abitare per più di qualche ora in un mondo che non
gli appartiene.
Tutti
tornano alla fabbrica, alla banca, all'ufficio, ai panini veloci, mangiati in
piedi, tornano ai telefoni che squillano incessanti, tornano alle code serali
del supermercato, all'aperitivo rubato prima di tornare a casa, allo sguardo
prolungato di un collega nuovo che lavora al secondo piano. Se avessi un
respiro sarebbe il respiro di un sofferente.
A settembre non piove quasi mai, a causa dell’ozono si sconsiglia a vecchi e bambini di uscire per strada. Ma uscire per strada, per fare cosa? Intrappolarsi in corso Vercelli o in Corso Buenos Aires a guardare i negozi, ecco che appaiono i primi vestiti invernali. Quest’anno ancora le scarpe con le punte quadrate, come quando eri bambina. Vedere tornare di moda capi d’abbigliamento di adolescenze e infanzie lontane, questo è segno dell’essere passati di moda. Grande intuizione e addio moda, tra poco cominciano le sfilate di non si sa mai quale futura stagione. Chissà se faremo vacanze l’anno che verrà. Cos’altro succede di questi tempi?
Escono i
nuovi film nelle sale di prima visione, pare che ci sia più gente che in
passato al cinema, soprattutto di pomeriggio. Escono mucchi di nuovi libri, è
un po’ una rentrée, anche se di consistenza di molto inferiore a quella
francese o americana. Questo preteso cosmopolitismo è la mia più evidente
malattia che finisce con il far risaltare tutti i tratti da città di provincia
che posseggo. Però riprendono anche le attività culturali, fioriscono le
associazioni e questo è un tratto che della città piace, e non solo agli
intellettuali.
Libreria
Utopia, Casa della Cultura, Punto Rosso, Libreria delle Donne, Casa Zoiosa,
Libera Università delle Donne. Ce ne sono tanti, ma non abbastanza per sfamare
tutti i bisogni inconfessati dei divoratori di libri, degli affamati di idee.
Ce ne sono più di quanti non si creda in questa strana città. Consumatori
abituali di razioni massicce di parole stampate.
Leggere per essere altro da quel che si è, leggere per scoprire quel che si è, leggere per essere altrove, leggere per alzare gli occhi e non vedere intorno a sé solo palazzi e visi annoiati, ma scorgere la nuvola a forma di drago, i bambini che corrono tra passanti esausti, vecchi che giocano con i cani.
Ma è settembre, settembre, ripeterlo come una cantilena.
È settembre,
le giornate si accorciano, gli amori finiscono. Meglio non innamorarsi a
settembre, questi amori nascono difettosi, è raro che vadano oltre le lunghe
nebbie dell’inverno.
Meglio prepararsi, preparare le tane, foderarle di libri e scorte contro il freddo e contro il buio. Chiudersi nelle proprie piccole malinconie, andare a letto presto la sera. Ma prima uscire a passeggiare poco dopo il tramonto, mentre i lampioni si illuminano e per un momento quasi impercettibile tutto si acquieta e io divento silenziosa. Poi tornare in casa, ascoltare Köln Concert di Jarret e respirare l’aria umida della sera incombente. Indossare abiti neri e prepararsi a una notte di festa, anche senza molta voglia di stare in mezzo alla gente.
Sì, è
davvero tutto cambiato nella città dove vivo. Anche senza la pandemia le cose
sono mutate, un po’ grazie all’Expo, molto a causa delle tecnologie e dei
social. Come se quest’epoca di relazioni virtuali avesse scelto il Covid-19 come
virus prediletto, per costringerci a stare lontani, a stare chiusi nelle nostre
case.
Questa Cronaca 205 è molto sociologica e un po’ nostalgica e accompagna il ventinovesimo giorno di settembre dell’anno senza Carnevale. La foto l'ho scattata dal tram 12 qualche anno fa.
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