sabato 26 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/202: la bambina che voleva essere una biblioteca nella città silenziosa

Come chiamavamo quei giorni sospesi tra la fine dell’estate e l’inizio della scuola? L’erba nei prati ritornava cosa viva, il pastore guidava ai rifugi autunnali il suo gregge di pecore che sembrava sempre più numeroso di quello che era passato in primavera.

Eravamo stretti tra il buio della sera iniziata il giorno prima e il buio della nuova sera che arrivava. La luce rimpiccioliva a ogni tramonto come un abito di seta lavato troppe volte in lavatrice.

Noi eravamo vivi in compagnia della luce morente, ogni mattino speravamo che non piovesse, che l’autunno fosse gentile, che il profumo del pane appena sfornato continuasse a solleticare le nostre narici. Nelle poche ore pomeridiane ancora libere dai compiti, giocavamo a palla fuoco senza sosta.

Il fuoco era dentro di noi, non solo nel cielo e nei camini, non solo nelle cucine. Era così facile immaginare che poi, dopo, tra qualche anno, una volta finite le corse e i giochi di palla, avremmo ripensato a quei pomeriggi senza nome sospesi, però, nel nome della stagione nuova che non portava speranze, ma nidi vuoti e ali ripiegate.

C’erano i libri, c’erano i libri e in compagnia di un libro non ho mai avuto paura o nostalgia. Non so se i libri mi hanno cercata per farmi compagnia nella mia solitudine o è stata la solitudine che ha cercato i libri e li ha schierati come una guardia medioevale fuori dalla mia torre, almeno all’inizio.

Poi ho scoperto che i libri aprivano porte invisibili, mi lasciavano accedere a mondi reali immaginati o ricordati o tutte e due le cose insieme.

Ho imparato dai libri che le emozioni hanno un sentimento accanto, ho imparato a dare un nome a ciò che provavo, ho imparato a rendere grazie perché la mia vita era piena di libri e la compagnia di un libro era la gioia più pura che sentivo intorno a me. Ero avvolta da misteri e amore, fughe e speranze. Non erano molti i bambini che avevano libri in casa e genitori che amassero leggere. O che avessero tempo e desiderio di leggere. Ci muovevamo in transumanza, come quelle pecorelle che vedevamo passare due volte all’anno, ma i miei amati libri mi avevano resa una diversa. Spesso il pomeriggio ero l’ultima a scendere in cortile a giocare, perché avevo letto e riletto lo stesso libro, magari Il richiamo della foresta per due volte di fila come ricordo di avere fatto.

Leggere un libro quando si è bambini è finire in una macchina del tempo, basta anche un frullatore fatato, forse, e uscirne irrimediabilmente altro da sé.

Per questo ho riconosciuto quel brivido, mai perduto, e che l’autunno mi riporta ogni anno, quando ho letto queste parole di Amos Oz, tratte dal suo magnifico romanzo autobiografico Una storia d'amore e di tenebra:

  

“Solo di libri, da noi, c’era abbondanza da una parte all’altra, in corridoio e in cucina e in ingresso e sui davanzali delle finestre e dappertutto. Migliaia di volumi, in ogni angolo della casa. C’era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono, nascono e muoiono, i libri invece godono di eternità. Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore non è difficile ucciderlo. Mentre un libro quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca, a Reykjavik, Valladolid, Vancouver”.

 

Il desiderio di essere un libro in me era già andato oltre, perché da bambina avrei voluto essere una biblioteca, non in ordine alfabetico o tematico, la mia biblioteca sarebbe stata in ordine di passione e d’amore, che come sappiamo a volte si intrecciano e si fondono. Altre volte si combattono sino a distruggersi a vicenda. Quel che resta dopo lo scontro, è la gioia di essersi incontrati, la gioia che avvolge anche questo giorno luminoso e freddo, dove donne e uomini mascherati non hanno lasciato impronte nei miei occhi, dove ho cercato di guardare le loro mani per capire in che angolo della foresta che è il nostro mondo, si fossero rifugiati tra scimmiette urlanti e pappagalli copioni, i loro cuori.

Intorno la città era una teoria di finestre cieche, negozi abbandonati, strade deserte e rumori sordi che inseguivano il silenzio.

Ero con mio fratello Alessandro e mio nipote Andrea, quando una ragazza distratta ha attraversato in bicicletta e sulle strisce mentre il suo semaforo era rosso. Qualunque cosa stesse pensando non la dimenticherà mai, l’auto di un vigilante l’ha urtata. Per una frazione di istante, per pochi centimetri, anziché essere sbalzata in aria tutta intera, l’urto ha fatto volare verso di noi la catena della sua bicicletta e lei ha solo perso l’equilibrio senza neanche cadere.

Gli angeli affollati sui tetti si sono congratulati l’un l’altro per lo scampato pericolo. Dalle terrazze i fantasmi si sono mostrati nei loro profili evanescenti e hanno capito che non ci sarebbero state nuove visite questa mattina.

Insieme a fantasmi ed angeli entro ed esco da questa realtà e dalla città silenziosa e torno nella Casa delle Parole, dove il camino è acceso e David il poeta attendeva il mio ritorno.

Benvenuto buio che accompagni gli occhi al riposo, benvenuta notte che pacifichi il giorno e lo conduci al suo declino senza proteste.

La cesta dei giorni che sono stati è accanto al camino, i ciocchi alimenteranno il fuoco della memoria nel tempo che sarà.


Questa Cronaca 202 è figlia del vento - forse di tramontana? – che ha insidiato la città silenziosa e le Montagne della Nebbia senza mai fare una sosta. Oggi è stato il ventiseiesimo giorno del mese di settembre dell’anno senza Carnevale. La Poesia sonnecchia come un gatto nella cesta dei giorni, ma ascolta tutto e presto tornerà per dire. 

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