lunedì 14 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/190: poesia della bambina con la cartella rossa

 

La scuola iniziava il primo ottobre ai miei tempi. Settembre era ancora un mese di giochi sfrenati nei cortili, di corse sugli schettini e in bicicletta, di richiami materni dal balcone per andare a comprare il pane e il latte.

La cartella nuova, a mano e che doveva durare diversi anni. Anche l’astuccio era semi-eterno e così le matite, la gomma, le biro rossa e nera. Alle elementari cinque anni di sussidiari in una classe sovraffollata, di oltre quaranta bambine. Doppi turni per tutto il ciclo elementare, medie e i primi due anni di superiori. Poi andava avanti chi ce la faceva. Della mia prima superiore, dove eravamo in trentadue, siamo arrivati agli esami di maturità in dodici e neanche tutti promossi.

La scuola era molto nozionistica, bisognava ascoltare, leggere, studiare, ripetere, dimostrare che si sapevano le cose seguendo rigidamente il programma. Bisognava saper fare i dettati, riconoscere le parole, non c’erano stimoli diversi dal piacere personale che lo studio e i libri potevano dare ai bambinetti che eravamo. Uno dei momenti clou della mia vita scolastica fu in quinta elementare quando un mio tema contro la guerra venne scelto come editoriale del neo-fondato giornalino scolastico “Scarabocchi di noi scolari”. Non era molto incoraggiante quel nome, ma nessuno ci badò e tanto meno io che venni nominata direttore, perché in italiano ero la più brava.

Alle medie ci furono almeno due professoresse che segnarono i miei studi: la professoressa di italiano Lucia Buratti, maoista-leninista-femminista. Soprattutto femminista, fu lei a farmi leggere Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, fu lei che mi appassionò alla politica e allo scambio intellettuale. Quando ci fu il referendum sul divorzio nel 1974 il mio tema scatenò un dibattito accalorato non solo in classe, ma nella scuola. Perché avevo scritto che ero favorevole al divorzio e anche i miei genitori. Quindi al referendum avrebbero votato NO e io ero orgogliosa della loro scelta. Perché chi avrebbe voluto vivere insieme a dei genitori costretti a farlo e non perché lo avevano scelto? L’altra professoressa era la sig.ra Mazzini, non ricordo più il suo nome, di educazione artistica. Con lei la bellezza dell’arte mi si dischiuse davanti anche se, invano, cercò di riuscire a farmi esprimere la mia creatività. Se non per qualche mese nel 1975, dove avevo disegnato e dipinto cose mai più ripetute, le sue esortazioni furono inutili.

Ricordo molto bene molti dei miei primi giorni di scuola, quasi tutti direi, un lungo elenco risulterebbe noioso, quindi non lo scriverò. L’eccitazione e la gioia non sono mai venute meno né all’inizio, né durante l’anno scolastico. La mia emancipazione di donna e di essere umano è passata attraverso lo studio e i libri. E la passione per lo studio non è ancora venuta meno, anzi, si è consolidata negli anni.

Di tutti quei primi giorni di felicità assoluta, c’è un’immagine che mi è particolarmente cara. La bambina con la cartella rossa a mano che si avvia verso la sua scuola elementare con la speranza nel cuore di ritrovare Laura, la nuova amica conosciuta al campo giochi il pomeriggio del giorno prima. Aveva una lunga coda di cavallo la bambina Elena e l’animo pieno di aspettative.

La scuola non mi ha mai deluso, è stata sempre una delle cose migliori della mia vita. È anche grazie alla scuola che ho imparato ad amare la poesia e a sentirla risuonare in me.

 

Questa Cronaca 190, scritta il quattordicesimo giorno di settembre dell’anno senza Carnevale, è forse la cronaca più cronaca e meno poetica, ma oggi mi sento solidale e in sintonia con i milioni di studenti e scolari delle scuole italiane e planetarie. E mi sento vicina alle famiglie, zie incluse, agli insegnanti e spero che la gioia che ho conosciuto si diffonda come una polverina magica nell’aria e faccia risplendere gli occhi dei bambini. Nonostante il virus che continua a diffondersi e la paura che ci accompagna.


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