Come lo sappiamo che gli oggetti trattengono parti dell’anima, tracce, sensazioni di chi li ha posseduti e usati? Non è solo una forma di animismo mescolato con un feticismo di matrice cattolica. Le reliquie delle persone religiose, le tombe dei santi, valgono i manoscritti e le tombe degli scrittori per noi amanti dei libri, dispieghiamo una vera devozione che sfocia nel fanatismo. Ma quando sono oggetti di uso comune a racchiudere in sè l’anima delle persone? Ne ho la prova quando uso le posate che usava mio padre quando era militare, quando apro la scatola con i rocchetti del cotone che usava mia madre. I piatti bianchi di porcellana con il bordo d’oro zecchino, evocano un Natale degli anni Settanta, una buonissima pasta al forno, erano rigatoni con la crosticina croccante, e poi arrosto con le patate. I bicchieri di cristallo con il gambo esagonale sono un regalo, sempre di Natale, degli anni Novanta, ci abbiamo bevuto solo nelle feste comandate e ai compleanni. In una scatola ho trovato le candeline di non so più quanti compleanni, il numero e la candelina rosa o azzurra. Le tovaglie della festa sono ricamate a mano, tranne quella celeste che non ha ricami, ma che è la mia preferita. In una grande pentola di terracotta cucinammo per la prima volta il sugo degli spaghetti “alla pirata”, eravamo così entusiasti io e mio fratello, da avere disegnato apposite bandierine nere col teschio montate sugli stuzzicadenti da infilzare nella pasta. Il sugo è un ragù di manzo con soffritto di cipolla e mortadella, basilico, prezzemolo e una montagna di peperoncino. Quanto erano buoni quegli spaghetti di una nebbiosa sera d’autunno del secolo passato. Quando sfioro la macchina da cucire di mia madre, una Pfaff professionale del 1955, non mi pento di non avere imparato a usarla, non era la mia strada, era la sua. Sfioro decine di fazzolettini ricamati da una zia, lenzuola tessute al telaio a mano negli anni Cinquanta e bordate di pizzo finissimo fatto all’uncinetto. Poi ci sono le enciclopedie, i libri di scuola di mio padre, romanzi di scrittori dimenticati, altre enciclopedie, tra cui quella medica che leggevo regolarmente senza che mai mi sfiorasse il pensiero di studiare medicina. Potrei continuare a elencare tutti quegli oggetti con i quali non convivo più da decenni, ma preferisco fermarmi qui. È doloroso toccare cose che appartengono a persone che abbiamo amato e che non ci sono più. Ogni oggetto che viene scartato è una piccola morte che si ripete, che preannuncia la fine nota di tutti noi, una fine che gli oggetti ci aiutano a tenere lontana, in un rito scaramantico che ci porta dalla collezione all’accumulo compulsivo, ma come non badare all’anima di quella tazzina bordata di rose arancioni?
Le cose, rose con un
altro nome
Sono
solo piccoli tocchi,
un
leggero passaggio della
punta
delle dite. Sussurrano
le
anime degli oggetti quando
ci
riconoscono. Perché tanto
quanto
noi le sentiamo, loro
sentono
il nostro attaccamento
e
lo ricambiano. Per questo certi
giorni
mi guardo allo specchio e
il
naso mi pare il manico di una
teiera,
per questo certi giorni
la
testa si sovrappone all’ombra
del
paralume e la mano sta tutta
intera
dentro quel fazzolettino
di
organza ricamata con piccoli
tralci
di rose. Ecco sono le rose
a
essere dappertutto, legano
le
nostra anime a quelle delle cose,
che
sono rose con un altro nome,
un’altra
iniziale e che possiamo
usare,
stringere in mano, lasciar
cadere,
non solo contemplare
come
ci chiedono le ultime rose
di
novembre, tutte insieme
soffiano
sulla fiamma e
ravvivano
il fuoco, vogliono
splendere
più ancora di quando
respirano
e si vantano nel
cuore
del nostro giardino.
Sono giorni strani dove torrenti in piena di ricordi sovrastano questa dimensione del reale, dove le mie mani tornano piccole e trovano la sicurezza, il calore delle mani dei miei genitori.
Ci siamo amati, questo è l’unico pensiero che condivido con gli oggetti alla fine di questa giornata, martedì 2 novembre del secondo anno senza Carnevale e della sua Cronaca 604, che assomiglia a una tavola imbandita a festa in un giorno feriale.
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