Giulio Ario
Tarrutenio, prefetto della città di Roma nel V° secolo, giunse ad Argentanum,
quella che sarebbe diventata la città di San Marco Argentano, in una tiepida
giornata di primavera. Fu prima ospite del console locale, ma poi, aggirandosi
per le campagne scelse di far costruire la propria dimora a metà strada tra il
fiume Follone e le Fontane che sgorgavano dalla collina. Per ricordare la
bellezza del luogo fece piantare ulivi e fichi e in mezzo al campo di grano più
ampio una quercia che lo avrebbe ricordato nei secoli a venire.
Cinque secoli dopo, la città venne conquistata dai Normanni di Roberto il Guiscardo cui si devono numerose architetture che ancora oggi testimoniano l’importanza del luogo. Anche il Guiscardo restò incantato dalla piccola valle tra le Fontane e il fiume e fece erigere, non lontano dalla grande quercia, un casino di caccia dove svagarsi lontano dalle questioni di palazzo.
Dopo numerosi secoli ancora, ecco che la grande quercia ormai millenaria era diventata il rifugio dei bambini durante la calura estiva. Non bastavamo noi cugini, ed eravamo in quindici, a cingerle il tronco con le nostre piccole braccia.
I nostri giochi selvaggi non avevano niente di terribile e pericoloso come ai tempi di Giulio e Roberto. Ma furono i nostri tempi di pace che videro mani sacrileghe abbattere la nostra quercia. La piango ancora dopo decenni e a volte la sogno.
Così oggi ho deciso di portarla con me nelle terre delle Montagne della Nebbia, dove già ci sono numerose querce.
Vedete, non
è difficile popolare quella vasta regione che abita al centro della mia
immaginazione. Penso una cosa, la vedo nel teatro della mente e poi la ritrovo
laggiù proprio come la volevo. Non mi sono mai posta la domanda sulla natura
delle sue foglie, così anche oggi, nel cuore dell’autunno, i rami risplendono
di un bel verde cupo e io mi nascondo da un sole pallido e chiuso da sembrare
dipinto, sotto i suoi rami.
Subito mi raggiunge la lupa festosa, è sola e questo è molto strano. Il lupo sarà forse a caccia ma sono certa che a breve ritornerà. Giochiamo come due cuccioli e poi torniamo verso la Casa delle Parole dove non c’è nessuno e questa casa sembra l’ultima casa di Rilke:
In questo
villaggio l’ultima casa
è sola come
fosse l’ultima casa del mondo.
La strada,
che il piccolo villaggio non trattiene,
va oltre,
ancora, lenta nella notte.
Il piccolo
villaggio è solo un passo tra due luoghi
vasti –
colmo di presentimenti, timoroso:
un sentiero
tra le case, neanche un ponte.
Chi lascia
il villaggio vaga a lungo,
e molti
muoiono, forse, per la via.
La quercia
millenaria protegge il nostro piccolo villaggio, la Casa delle Parole e la Casa
delle Stelle, la Casa delle Tre Sorelle in riva al mare, l’antica torre e il
bosco. E so che allo stesso tempo la Casa delle Parole veglia su tutti noi e aspetta
chi non è ancora rientrato.
Accendo il fuoco, chiamo i gatti, sul tavolo metto un ramo di quercia con le foglie lucide e numerose ghiande. Brucio nel fuoco alcune pigne resinose e poi getto anche le bucce del mandarino.
Chiamo la
quiete notturna a farmi compagnia e ricordo tutto, ricordo la voce e lo
sguardo, le risa di chi non è con me.
Oggi è il
29, l’ultima domenica di novembre dell’anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 266. È bene che inizi a
cercare un nome per le Cronache che verranno perché questo anno funesto non
sarà l’ultimo senza Carnevale. La poesia di R. M. Rilke è tratta da Il libro d’ore, a cura di Lorenzo Gobbi,
Servitium 2008.
Nessun commento:
Posta un commento