domenica 8 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/245: il suono di un violino, le betulle senza foglie e New York nella tundra russa

 

Non esiste una sola città, la città silenziosa che racconto nelle Cronache è la mia città, il frutto delle mie osservazioni, delle mie passeggiate, delle mie letture e dei miei studi di sociologia. È la città della mia infanzia e della mia memoria, il paesaggio primigenio, il mondo visto per la prima volta, come scrive Louise Glück, con uno sguardo ancora intatto.

Il volto di mia madre, la sua pelle chiara e luminosa, protetta dai mandorli in fiore, gli occhi verdi e nocciola striati d’oro, i suoi bei lineamenti, la bocca carnosa con il rossetto rosso fuoco che ha usato tutta la vita, il naso piccolo ed elegante, i capelli castani lisci che ondulava perché avrebbe voluto essere riccia.

Il volto di mio padre, la sua pelle di tonalità più scura, tinta dall’aspro sole calabrese, gli occhi allungati, il naso forte e impertinente, il sorriso contagioso, le orecchie mobili, i capelli ricci che avevano conquistato mia madre.

Insieme alla mia città, alla ringhiera e ai ballatoi della mia prima casa, all’angolo di mondo tra via Corsico, Vicolo dei Lavandai e l’Alzaia del Naviglio Grande, i volti dei miei genitori sono stati la prima terra che ho esplorato.

Ognuno di noi ha la propria città, i propri volti amati, lo stesso eppure diverso Naviglio, le case basse abitate dalla gente comune, gli scoppi nei motori delle prime auto, la luce azzurrina delle prime televisioni, l’odore della scighera, lo sguardo avvolto nella morbida consistenza di questa nebbia così milanese.

Questa città nasce e vive dall’incrociarsi continuo dei nostri passi e dei nostri sguardi, delle nostre memorie e dei nostri desideri.

Ora che stiamo di nuovo chiusi in casa per la maggior parte del tempo, sono soprattutto i nostri sogni a tenere viva la città, che lo sa e aspetta di rivederci e di sentire di nuovo il brivido delle passeggiate che faremo.

Oggi sono uscita di nuovo a camminare tra le foglie secche, non c’era Truffaut per strada, ma un incredibile, meraviglioso uomo molto anziano che non incontravo da diverso tempo. D’estate usa lunghi caftani di lino e d’inverno un montone rovesciato e un cappello di pelliccia neri, come se vivesse in Siberia. Assomiglia a uno scrittore russo più di tutti, al monumentale Tolstoj che non si vestiva certo così, ma aveva la stessa barba.

Ho da sempre nostalgia della tundra siberiana, che non ho mai visto, di Mosca e Pietroburgo che avrei dovuto visitare se non fosse scoppiata la pandemia, dei samovar, della Transiberiana, dei boschi di betulle, dei giardini di ciliegi, delle donne che passeggiano con un cagnolino, dei balli a corte, della lingua che mi risuona nelle orecchie come un canto.

Il mio scrittore russo milanese aveva in spalla un violino e stava forse tornando verso casa, dove avrebbe suonato una melodia struggente come il violinista di Chagall.

Una città è tutte le città del mondo, anche quelle che non abbiamo visto, un acero è un bosco e una betulla la Russia.

La Cronaca 245 è figlia di domenica 8 novembre 2020 dell’anno senza Carnevale e dopo la fuga in terra russa, torno a immergermi nella rilettura di Cosmopolis di Don DeLillo, dove la città è New York, l’apoteosi del capitalismo finanziario e insieme il simbolo di un grande crollo che alla fine non sarà tale, il capitalismo è un muta-forma ed è sopravvissuto a qualunque ordinamento e regime politico. Perché è la vera variabile indipendente delle società umane, la nostra democrazia occidentale, che non sempre proteggiamo ed esaltiamo come meriterebbe, è una delle molte possibilità e come scriveva il politico statunitense John Lewis e come ha ricordato Kamala Harris, neo vice-presidente degli USA “la democrazia non è uno “stato”, è un atto”.


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