Inizia una nuova cerimonia nel Monastero di Colorno, gli abitanti sono già tutti schierati e io mi confondo tra loro e cerco tra quelli che arrivano, la nuova voce che qui si fermerà.
Lo riconosco dalla folta chioma bianca e dall’uomo che lo precede, una versione di se stesso in vesti giovanili.
Mi chiedo sempre se il poeta giovane già senta in sé la ruggine del tempo, le rughe che saranno, il disincanto e le parole che sono ancora nell’occhio di Dio.
Allo stesso tempo mi chiedo se il poeta incarnato nell’uomo anziano, ancora tenga in sé quel furore dei versi giovanili. Mi chiedo se sia ancora in grado di separare il grano dal loglio e accettare la sentenza della luce che non fa mai sconti a chi vive nelle parole, a chi cerca nomi anche dove nomi non ci sono, né possono esserci.
Fuori
Fuori ormai
non vado più,
ci sono,
fuori. A metà strada tra la palma
e il fico.
Sotto la mezza
luna, sette
ore ancora alla rugiada.
Gocce sulla
piombaggine.
Come si
chiama ogni ora
della notte,
come si chiama ogni minuto
dell’ora? Se
i giorni hanno nomi,
perché non i
minuti?
Ogni istante
della nostra vita
dovrebbe
avere un nome
che non
assomigli al nostro,
che ci
dimentichi. Ogni secondo
una cifra su
un registro
di battiti
di ciglia, sussurrio
origliato,
versi di poesia
inframmezzati
ai giornali,
sussurrio di
brina e di neve,
la più lenta
poesia
della durata.
Tutto a
formare un cerchio,
tondo come
un quadrato,
ogni cosa
per sempre
sposata a se
stessa.
Così ci mancano i nomi e ci mancheranno per sempre, perché i frammenti di tempo non possono avere un nome, non sono divisibili oltre una certa misura. La più piccola unità di tempo è l’istante e di istanti costruiamo la narrazione delle nostre vite.
Ma come il pescatore non riesce a intrappolare i pesci più piccoli, così noi lasciamo sfuggire le preziose sembianze di un tempo che pure è stato ed è ancora dentro di noi, anche se non lo sappiamo.
Così quando il buio scivola tra le strade e le case, cerchiamo una nuova forma per l’attesa e rinunciamo al nome che non ci verrà donato.
Notte
Di notte,
lungo palazzi di nuvole
e un’ultima
terrazza di chiaro di luna,
il sogno di
viaggi proibiti,
un portone,
sempre chiuso,
ora
socchiuso, il pericolo di un’altra
vita, una
poesia
di
un’esistenza capovolta,
in cui la
morte non ha falce:
è un amante
su zoccoli d’oro
che ti
accarezza il seno
e srotola il
tappeto di stelle
perché ti ci
possa stendere sopra.
Luce
ovunque, fino ai denti
della belva,
fino alle unghie
dell’assassino
e al pugnale lucente
che scrive l’ultima
parola,
fuoco, poi
con i tuoi occhi di nessuno
vedere senza
mai una fine,
vedere chi
eri.
Ma è il
fuoco che scrive l’ultima parola di questa sera e ci invita al riposo e alla
quiete. Ora, nella cesta davanti al camino, riposano anche i frammenti di
tempo, brillano come lucciole per un po’, e poi si spengono allo sguardo e
restano vivi solo nel nostro cuore.
Questa Cronaca 264 è figlia dell’ultimo venerdì e ventisettesimo giorno di novembre dell’anno senza Carnevale. Nel silenzio degli alberi e nella voce del fuoco cerco risposte e sono poesie che mi vengono incontro a far scintillare questo tempo ancora oscuro, quelle di stasera sono di Cees Nooteboom, tradotte da Fulvio Ferrari per la raccolta Luce ovunque. 2012 - 1964, Einaudi 2016.
Nessun commento:
Posta un commento