venerdì 27 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/264: di notte, lungo palazzi di nuvole aspettiamo il sorgere del fuoco



Inizia una nuova cerimonia nel Monastero di Colorno, gli abitanti sono già tutti schierati e io mi confondo tra loro e cerco tra quelli che arrivano, la nuova voce che qui si fermerà.

Lo riconosco dalla folta chioma bianca e dall’uomo che lo precede, una versione di se stesso in vesti giovanili.

Mi chiedo sempre se il poeta giovane già senta in sé la ruggine del tempo, le rughe che saranno, il disincanto e le parole che sono ancora nell’occhio di Dio.

Allo stesso tempo mi chiedo se il poeta incarnato nell’uomo anziano, ancora tenga in sé quel furore dei versi giovanili. Mi chiedo se sia ancora in grado di separare il grano dal loglio e accettare la sentenza della luce che non fa mai sconti a chi vive nelle parole, a chi cerca nomi anche dove nomi non ci sono, né possono esserci.  

 

Fuori

 

Fuori ormai non vado più,

ci sono, fuori. A metà strada tra la palma

e il fico. Sotto la mezza

luna, sette ore ancora alla rugiada.

Gocce sulla piombaggine.

 

Come si chiama ogni ora

della notte, come si chiama ogni minuto

dell’ora? Se i giorni hanno nomi,

perché non i minuti?

 

Ogni istante della nostra vita

dovrebbe avere un nome

che non assomigli al nostro,

che ci dimentichi. Ogni secondo

una cifra su un registro

 

di battiti di ciglia, sussurrio

origliato, versi di poesia

inframmezzati ai giornali,

sussurrio di brina e di neve,

la più lenta poesia

della durata.

 

Tutto a formare un cerchio,

tondo come un quadrato,


ogni cosa per sempre

sposata a se stessa.

 

 

Così ci mancano i nomi e ci mancheranno per sempre, perché i frammenti di tempo non possono avere un nome, non sono divisibili oltre una certa misura. La più piccola unità di tempo è l’istante e di istanti costruiamo la narrazione delle nostre vite.

Ma come il pescatore non riesce a intrappolare i pesci più piccoli, così noi lasciamo sfuggire le preziose sembianze di un tempo che pure è stato ed è ancora dentro di noi, anche se non lo sappiamo.

Così quando il buio scivola tra le strade e le case, cerchiamo una nuova forma per l’attesa e rinunciamo al nome che non ci verrà donato.

 

Notte

 

Di notte, lungo palazzi di nuvole

e un’ultima terrazza di chiaro di luna,

il sogno di viaggi proibiti,

un portone, sempre chiuso,

ora socchiuso, il pericolo di un’altra

vita, una poesia

 

di un’esistenza capovolta,

in cui la morte non ha falce:

è un amante su zoccoli d’oro

che ti accarezza il seno

e srotola il tappeto di stelle

perché ti ci possa stendere sopra.

 

Luce ovunque, fino ai denti

della belva, fino alle unghie

dell’assassino e al pugnale lucente

che scrive l’ultima parola,

fuoco, poi con i tuoi occhi di nessuno

vedere senza mai una fine,

 

vedere chi eri.

 

 

Ma è il fuoco che scrive l’ultima parola di questa sera e ci invita al riposo e alla quiete. Ora, nella cesta davanti al camino, riposano anche i frammenti di tempo, brillano come lucciole per un po’, e poi si spengono allo sguardo e restano vivi solo nel nostro cuore.

 

Questa Cronaca 264 è figlia dell’ultimo venerdì e ventisettesimo giorno di novembre dell’anno senza Carnevale. Nel silenzio degli alberi e nella voce del fuoco cerco risposte e sono poesie che mi vengono incontro a far scintillare questo tempo ancora oscuro, quelle di stasera sono di Cees Nooteboom, tradotte da Fulvio Ferrari per la raccolta Luce ovunque. 2012 - 1964, Einaudi 2016.

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