lunedì 2 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/239: dove una torre e un falco diventano preghiera

 


In questi giorni di attesa e inquietudine continuano a risuonarmi in testa questi versi di Rilke:

 

Giro attorno a Dio, all’antica torre,

giro da millenni;

e ancora non so se sono un falco, una tempesta

o un grande canto.

 

Così ho scritto questa risposta che risuona non solo di Rilke ma anche di Etty Hillesum e anche dei miei sentimenti. Quando la vita ci mette di fronte alle prove più dure, quando perdiamo uno dei nostri cari, quando siamo separati da chi amiamo a causa di quanto sta accadendo, dal nuovo lockdown incombente, il trascendente, per quanto la nostra società secolarizzata e in gran parte laica, lo respinga, torna a visitarci e ci chiede conto.


 

Preghiera della torre e del falco

 

Entro nella torre anziché girarci

intorno e il falco mi agita il petto,

la tempesta è nei miei pensieri e

il canto si leva alto dove la mia

voce non arriva, perché la torre

sono io e Dio mi guarda dall’altro

lato del tempo che non passa e

che non arriva. Gli chiedo tregua

ma non risponde, gira il volto

verso il falco e insieme prendono

il volo. A me restano torre e

tempesta che cantano per dire a

Dio di tornare su queste rive che

ha abbandonato. Giro da millenni

attorno a questa torre e il solco

dei miei passi è la mia muta

preghiera. Tornerà Dio alle nostre

rive se lo avremo perdonato.

 

Ho scritto questa poesia ieri sera molto tardi, prima di andare a dormire, mentre la città silenziosa sprofondava nel sonno e nella nebbia.

Poi questa mattina molto presto, era ancora buio fuori, ho letto sulla pagina Facebook del teologo e scrittore Vito Mancuso queste sue parole:

«Io non ho mai perso la fede in Dio, ho modificato la mia fede nella trascendenza ritenendo che la visione cristiana avesse incongruenze che ho fatto emergere nei miei libri, e adesso per onestà intellettuale non mi definisco più cristiano ma post cristiano; il cristianesimo è parte di me ma non è più la meta, è una strada verso il Dio ignoto, la trascendenza».

Ecco, queste parole mi interrogano, non mi danno risposte, ma solo nuove domande. La nostra società laica non ha trovato risposte efficaci, consolatorie al nostro bisogno di pensare che non siamo finiti dopo questo breve passaggio nella dimensione che chiamiamo realtà.

Ho poi letto su Repubblica due interviste a “grandi vecchi” della nostra cultura. La prima alla sociologa Chiara Saraceno, 79 anni, che si dice favorevole a un lockdown mirato per gli ultra-settantenni: «I nostri figli e nipoti hanno già pagato un prezzo fin troppo alto per questa pandemia. Nella primavera scorsa sono stati chiusi in casa, hanno fatto lezione a distanza, hanno rinunciato alla socialità per proteggere noi, gli anziani. Adesso basta. È la mia generazione che deve fare un passo indietro. Possiamo limitare la nostra libertà, se questo vuol dire lasciare le scuole aperte e permettere ai bambini e ai ragazzi di vivere la loro giovinezza».

La seconda intervista è al critico letterario e storico della letteratura Alberto Asor Rosa, 87 anni, che dice: «Costringere un vecchio dentro le mura di casa è un modo per anticiparne la morte. In fondo ti viene imposto quello che ti accadrà quando uscirai letteralmente di scena: l’allontanamento dal resto del mondo».

Entrambi i pensatori ben argomentano le loro affermazioni ma non sciolgono i dubbi collettivi che ci attanagliano.

Alla fine, le domande che dobbiamo porci sono in fondo sempre le stesse: “Come mi sentirei io se avessi 20 anni? Come mi sentirei se ne avessi 80?”

Siamo in grado singolarmente e collettivamente di continuare a reggere il peso di Anchise sulle nostre povere spalle? Enea non dovette salvare la madre che era la dea Afrodite, ma non abbandonò a morte certa il proprio padre.

Come possiamo salvaguardare i nostri anziani senza mettere in ginocchio la nostra società? E non è forse questo dilemma che ci suggerisce che nella nostra vita reale e simbolica c’è una distonia tale, una contraddizione, una non sostenibilità che ci costringe oggi a interrogarci senza timore di guardare ciò che siamo, di avere il coraggio di amare la fragilità dei bambini e degli anziani, specchio di ciò che siamo stati, e questo è certo, e di ciò che saremo, se saremo fortunati.

Forse bisognerà iniziare a ripensare alla nostra civiltà a partire dal piano mitologico e psicologico.

Forse il Sessantotto è davvero stato il momento in cui l’orda dei fratelli ha simbolicamente ucciso il padre – vedi Totem e tabù di Freud – e ne ha preso il posto sino ad oggi.

Oggi tutti quei fratelli sono invecchiati, i baby-boomers hanno tra i 74 e i 56 anni, la vecchiaia incombe e non c’è nessun mito ad accogliere quest’orda di gente di mezza età e anziana che si ribella al destino biologico di ogni essere vivente.

In questa mancanza di un mito per l’orda primordiale che è invecchiata, manca, vistosamente, anche un riferimento al destino delle donne di questa generazione.

Anche noi preda dell’illusione di un’eterna adolescenza, anche noi fatichiamo nell’impresa di invecchiare con grazia? Dalla quantità di ritocchini e chirurgie plastiche pare proprio di sì. Se la vecchiaia è negata come possiamo rispecchiarci in uno specchio opaco se non addirittura vuoto? Di cosa abbiamo bisogno per guardare la vecchiaia, la nostra Medusa, in faccia senza diventare di pietra?

Così oggi, anziché iniziare la mia poesia dei doni, ho scritto una lunga serie di interrogativi che mi portano a studiare e a riflettere, qui alla mia scrivania, mentre la notte è già scesa e l’incertezza è il suo mantello. Questa Cronaca 239 è figlia di inquietudine e incertezza, due nomi per lunedì 2 novembre dell’anno senza Carnevale. I versi di Rilke sono tratti dal Libro d’ore. La mia poesia Preghiera della torre e del falco è inedita e sbarca nel mondo insieme alla torre che ha aperto la sua porta per me.


 


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