lunedì 16 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/253: e notte sono io, della tua notte

 


Il tempo non è che un mare increspato di piccole onde, è l’eternità a essere oceano e porto accogliente per tutti i naviganti.

Durante la tempesta scrutiamo tra i marosi in cerca di segnali, ma possiamo solo aspettare che la furia si plachi e se scorgiamo intorno a noi una quiete assoluta è solo perché siamo al centro del ciclone.

Da qualche giorno ho proprio questa impressione, di essere in mare aperto e nell’occhio di un ciclone di cui non riesco a percepire le reali dimensioni, l’estensione, l’altezza e la direzione.

Questa improbabile quiete, così come accadde durante il primo lockdown, è governata dai numeri che vengono snocciolati senza soluzione di continuità. I numeri della pandemia, delle vittime, dei nuovi ammalati, dei guariti, dei confinati in casa. Questi numeri, una prima rappresentazione del mondo, sono pesanti se letti nella loro nuda verità, si diluiscono quando vengono riportati alle percentuali. Dietro ogni numero ci sono una persona, una vita, una famiglia in preda al dolore e allo sgomento.

Gli altri numeri sono quelli dell’economia, delle aziende che chiudono, delle richieste di sussidio, dei disoccupati, dei nuovi poveri. Anche questi numeri sono la rappresentazione delle nostre povere vite in balia di un nemico minuscolo e letale, invisibile e sconcertante.

Dietro ogni numero sono celate narrazioni molto simili tra loro, ma ognuna uguale a se stessa, la febbre, il respiro corto e la paura. Il dolore, lo spaesamento, la speranza.

Non tutte le storie hanno un lieto fine, mentre ci eravamo ormai abituati a scongiurare il male rappresentandolo nei libri, al cinema, nei videogiochi, il male è arrivato in silenzio e ci ha, letteralmente, mozzato il respiro.

Il respiro è vita, calma, piacere, gioia involontaria dell’essere vivi. Respiriamo male nella città silenziosa, respiriamo male da anni. Ma siamo in qualche modo assuefatti all’aria pesante e riconosciamo la differenza solo dopo che da questa città ci siamo allontanati.

 

Dove trovare l’aria, dove ripristinare il respiro e la speranza in questo mese che è il culmine dell’autunno?

Io cerco nella poesia la mia aria spirituale e in lunghe camminate nel mio quartiere cerco un respiro profondo a dispetto della qualità dell’aria.

Come tutti aspetto la buona novella, il giorno in cui scopriremo che il numero dei nuovi contagi è crollato, che le terapie intensive si sono svuotate e che il mondo ridiventerà un luogo di nuovo aperto ed esplorabile.

Ora continuiamo a vivere nel nostro guscio, nelle nostre stanze, aspettiamo, condividiamo il tempo con chi amiamo, quando possiamo in presenza, se no in video e al telefono.

È un mondo ristretto quello in cui stiamo vivendo, dove siamo stati costretti a ripensare il nostro stile di vita, le aspettative, i progetti. Non ho mai pensato che ne saremmo usciti migliori, non lo credevo a marzo, non lo credo ora.

Ma credo che la nostra umanità dolente avrà qualche strumento in più per essere più umana, per riconoscere la fragilità e la vulnerabilità e avere cura gli uni degli altri, soprattutto di chi è più fragile e vulnerabile.

 

Anche oggi, lunedì 16 novembre dell’anno senza Carnevale, è un giorno interlocutorio e la Cronaca 252 è altrettanto interlocutoria, tesse ragnatele e foglie secche, soffia nel vento parole antiche. Così vi saluto con una poesia di Rilke tradotta da un altro poeta, Lorenzo Gobbi:

 

 

Come il custode ha la capanna

tra le vigne e veglia,

sono capanna, io, Signore, tra le tue mani;

e notte sono io, Signore, della tua notte.

 

Vigna, pascolo, antico frutteto,

campo, che nessuna primavera mai ha tralasciato,

albero di fico che anche in una terra

tutta pietre porta molti frutti:

 

c’è un profumo che si spande uscendo dalla tua

                                                    rotonda chioma.

E tu non chiedi, se io stia vegliando;

senza spavento, dissolti nei sentori,

quiete a me risalgono le tue profondità.

 

 

 

Wie der Wächter in den Weingeländen

seine Hütte hat und wacht,

bin ich Hütte, Herr, in deinen Händen

und bin Nacht, o Herr, von deiner Nacht.

 

Weinberg, Weide, alter Apfelgarten,

Acker, der kein Frühjahr überschlägt,

Feigenbaum, der auch im marmorharten

Grunde hundert Früchte trägt:

 

Duft geht aus aus deinen runden Zweigen.

Und du fragst nicht, ob ich wachsam sei;

furchtlos, aufgelöst in Säften, steigen

deine Tiefen still an mir vorbei.

 

– Rainer Maria Rilke, um den 1.5.1905, Worpswede

 

 

Da Il libro d’ore, a cura di Lorenzo Gobbi, Servitium 2008

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