Scrivo una lettera per qualcuno che non conosco, scrivo di fatti mai avvenuti, di sogni dimenticati al risveglio.
Scrivo di immaginazioni le cui immagini sono paesaggi senza figure, volti senza occhi, canti senza note.
Ti scrivo mia futura lettrice, mio sconosciuto lettore da questo angolo di tempo e spazio che è allo stesso tempo nella città silenziosa e nella Casa delle Parole, proprio lì, dove si intersecano i sentieri e la Biblioteca di Babele è dietro l’angolo della strada.
Oggi ti
scrivo anche della morte di un calciatore del pibe de oro che in questa dimensione si chiamava Diego Armando
Maradona. Ho pianto anch’io, anche se la mia conoscenza del calcio si ferma
alla grande Inter di Helenio Herrera e non ho mai seguito il campionato se non
quando lo seguiva mio padre, ma mi piacciono i mondiali di calcio e un po’
anche gli europei.
Noi ragazzi e ragazze del Novecento siamo intessuti di calcio che è stato bello sino a che non è impazzito e i calciatori hanno iniziato a guadagnare cifre stratosferiche.
Gli ultimi decenni del Novecento hanno spettacolarizzato qualunque dimensione della nostra vita e come poteva non restarci incastrato quel ragazzo che sembrava tenersi il pallone incollato ai piedi sino a quando non faceva goal?
Abbiamo smesso di essere adolescenti, tutti quanti e tutti insieme noi baby-boomer, in questo anno del Signore 2020.
Abbiamo scoperto che la vita non è un film dal lieto fine, abbiamo scoperto che non è neanche un reality show, abbiamo scoperto che l’economia e la finanza non possono essere il fine ultimo dell’esistenza.
Abbiamo avuto lezioni da maestri invisibili e inaspettati, lezioni di tenebre e perdite. Ma forse anche di maggiore consapevolezza e tenerezza, di gentilezza e di gioia nel flusso della vita quotidiana dove non abbiamo, non avevamo, tempo di fermarci per capire cosa stesse accadendo dentro e intorno a noi.
Abbiamo dovuto rallentare i ritmi, imparare a lavorare a casa, come una volta facevano solo le donne delle classi popolari. Abbiamo imparato a studiare a casa, come una volta facevano solo i bambini nobili e alto borghesi, incollati davanti ai nostri schermi e pian piano queste modalità di apprendimento, minoritarie sino all’anno scorso, hanno preso piede e sono diventate molto spesso l’unica modalità.
Sappiamo chi siamo stati, lo specchio della vita è stato implacabile nel mostrarcelo, non sappiamo chi diventeremo, dove saremo l’anno prossimo. Fra 36 giorni quest’anno dannato diventerà l’anno scorso.
E l’anno prossimo sarà l’anno in corso cui, forse, potremo iniziare col restituire il Carnevale. Le mie forme di resistenza sono sempre le stesse: i libri, le camminate tra la realtà e l’immaginazione, le conversazioni con le persone che amo.
So di avere potuto resistere sino ad ora perché amo la solitudine, stare da soli è qualcosa che si impara soprattutto da bambini e io l’ho dovuto imparare. Ma so anche che per la maggior parte delle persone non è così e allora vorrei che queste mie Cronache, che veleggiano in un mare di parole, di storie reali e di storie immaginate, siano diventate una piccola consolazione quotidiana, un rito che chiuda ogni giornata e apra il respiro e il pensiero per la notte che viene.
Questa è la Cronaca 262 scritta il venticinquesimo giorno di novembre dell’anno senza Carnevale. Alle cinque del pomeriggio era già quasi buio e adesso sono pronta per fare una passeggiata, avvolta in questo buio e nei miei pensieri con un libro di poesie in tasca, come fosse un talismano, il libro Luce ovunque. Poesie 2012-1964 del poeta e scrittore olandese Cees Nooteboom. Magari domani scriverò di lui visto che il titolo di questa Cronaca è fatto di frammenti mescolati delle sue poesie.
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