mercoledì 18 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/255: scrivere e leggere, accettare il calvario della rosa che fiorisce in novembre

 

 
 Dare i nomi alle cose e alle persone, ricevere un nome perché senza nome non esistiamo. Ciò che non può essere nominato non esiste, è parte del lato invisibile del mondo e della materia.

Dare i nomi è creare, la creazione del mondo nella Genesi nasce dalla voce di Dio che nomina e separa, per ogni cosa esiste un opposto, per ogni cielo la sua terra, per ogni notte il giorno, per tutte le tenebre un’unica luce.

Quando impariamo a parlare ci impadroniamo del mondo e del mistero delle sue leggi. Impariamo la lingua madre, perché dalla madre la impariamo e perché la lingua è madre del mondo che noi andiamo a esplorare, conoscere e costruire.

Poi impariamo a leggere e scrivere, uno dei momenti più belli, intensi e importanti nella vita di ciascun essere umano.

Leggere significa poter conoscere, imparare, informarsi. La lettura di un libro diventa poi un colloquio ininterrotto con il suo autore e i personaggi, gli eventi, le narrazioni, le rievocazioni. Siamo nel nostro infinito presente e nel tempo eterno dei libri che leggiamo, un libro è un mondo che possiamo ritornare a esplorare ogni qual volta lo desideriamo. A ogni lettura ricordiamo ciò che abbiamo letto e scopriamo elementi nuovi o cose che non sapevamo di sapere.

Scrivere ci consente di trasmettere i nostri pensieri, di fermare i ricordi, di entrare in comunicazione con gli altri esseri umani. La scrittura ha sempre in sé una dimensione salvifica e di auto aiuto perché le parole scritte creano quella distanza, quel vuoto che ci permette di pensare a noi stessi e ai nostri mali come se davvero, come scriveva Rimbaud, io fossi un altro da me.

Leggere poesia significa lasciarsi trasportare in territori inesplorati grazie a un uso non comune della lingua comune. Le visioni del poeta entrano in noi così come i suoi ricordi e ci attraversano, restano imbrigliati nella nostra memoria e nutrono l’anima.

Scrivere poesia significa abbandonarsi a quel flusso misterioso di parole che arrivano alle rive della nostra mente come naufraghi e noi le accogliamo e ce ne prendiamo cura nutrendole, riscrivendole, aspettando che fioriscano e, come le rose, spandano intorno a sé quel profumo inconfondibile che ci fa riconoscere la vera poesia.

Sono una lettrice appassionata di tutti i libri che parlano e raccontano di scrittura creativa e non creativa. Mi piace entrare nelle regole della mia lingua e farle mie, nelle regole che definiscono una buona storia, pure.

Ho imparato negli anni che per imparare a scrivere bisogna avere letto molto, ogni nuovo libro si nutre delle letture del suo autore, non solo di memoria e immaginazione. La narrativa è un duro lavoro di immaginazione e scelta, di ordine temporale, di trama, di vita dei personaggi e ha bisogno, come diceva e faceva Irène Némirovsky di “una vita anteriore del romanzo” dove lo scrittore costruisce i personaggi, le biografie, gli intrecci, i punti di svolta della trama, i dialoghi.

La poesia più ancora della prosa ha regole semplici, a mio avviso, che sono riconoscibili. La poesia non può essere solo l’espressione di un’emozione. Tutti proviamo emozioni, ma fare di un’emozione un verso è altra cosa.

Lo sguardo del poeta diventa visione, l’udito è il ritmo, le poesie sorde non sono poesie, la forma muta al mutare delle epoche e del poeta, ma una poesia senza forma è come una stella senza cielo, ci si accorge subito che qualcosa non funziona. Ultimo ma non ultimo è il contenuto, ciò che vogliamo dire scrivendo versi e le parole che usiamo. Non credo che tutte le parole siano adatte a entrare nelle misteriose regole della poesia, alcune parole sono totalmente inadatte a diventare parole poetiche. Resta poi l’elemento misterioso che fa di una poesia una poesia. È l’altrove che si manifesta nei versi, è lo sguardo rovesciato verso l’interno, è l’ultima rosa di un giardino autunnale che diventa la rosa assoluta, quella che vive un eterno calvario, che fiorisce quando fiorisce perché farlo è la sua natura.

 

La stessa riva

 

Siamo rimasti fermi

sulla stessa riva, guardando

direzioni opposte tra la fine

e l’inizio della luce, accecati

intenti, pronti a riconoscere

il calvario della rosa

che fiorirà in novembre.

 

Ora siamo in novembre, è mercoledì 18 novembre dell’anno senza Carnevale. Ho scorto l’ultima rosa del mio giardino è pallida e coperta di brina, il suo profumo è più un ricordo che una promessa, ma una rosa è sempre una rosa.

Non sono regole, non sono consigli quelli che ho scritto, sono constatazioni che mi riguardano e che auspico riguardino anche voi che mi leggete, sono riflessioni che finiscono in una spirale e ricominciano da capo, perché leggere e scrivere è qualcosa di infinito, lettura e scrittura sono quanto di più simile all’eternità noi creature umane siamo riusciti a inventare

La poesia di questa cronaca 255 è la poesia che ha dato il titolo al mio primo libro, Il calvario della rosa, scelto nel 2004 dal poeta Danilo Bramati curatore della collana Fabula, presentato  dal poeta Milo De Angelis e pubblicato da Moretti&Vitali nel 2004. Io quella rosa novembrina continuo a vederla se mi affaccio nel giardino della mia memoria.

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