Ho imparato l’incertezza in questi anni, forse ho imparato a ricordarla, a ricordare pandemie minori degli anni Sessanta del secolo scorso, crisi geo-politiche, la Guerra fredda e la sua fine, la caduta del Muro di Berlino, l’implosione della Jugoslavia, l’assedio di Sarajevo, le guerre del Golfo e così a ritroso e avanti e indietro nel tempo. La nostra civiltà aveva relegato la morte nei videogiochi, dove si risorge, e nei libri gialli e neri, dove l’assassino viene quasi sempre punito. Il virus non aveva volto, odore, consistenza e ha iniziato a colpire alla cieca i più fragili delle nostre società, gli anziani, gli ammalati. In qualche modo, a fatica, abbiamo resistito, abbiamo creduto di essere fuori dopo le prime cinque settimane di lockdown nel maggio 2020. Poi un’estate libera, la sensazione di essere tornati a quella normalità che avevamo negato strillando ai quattro venti che “niente sarà più come prima”. Niente è più come prima, la fragilità della nostra civiltà, di tutta l’umanità, non è più polvere che si può nascondere sotto un tappeto. Ciò nonostante soffiano venti di guerra in Ucraina e non è certo che la pandemia si stia davvero trasformando. Quando finì l’epidemia di Spagnola, oltre cento anni fa, nessuno ebbe la voglia di analizzarla, ricordarla, scriverne. Un grande meccanismo di rimozione collettiva ha fatto sì che quella storia fosse ancor meno ricordata delle grandi epidemie di peste nera. Accadrà così anche la nostro virus? È probabile, probabile che i ricordi si facciano sempre più blandi, che altre preoccupazioni arrivino a travolgerci. Come reagirà il corpo sociale? Parleremo sempre e solo di ripresa e crescita economica? La politica riuscirà a trovare quella centralità che l’economia le aveva scippato da decenni? Cambieranno le politiche pubbliche di investimento in istruzione e sanità? Sono tutte domande aperte che troveranno risposte nel tempo. Intanto continuiamo a vedere i numeri del contagio contrarsi, le proteste anti-sistema aumentare a partire da Canada e Francia, arrancare in Italia, dove ha prevalso il buon senso e il riconoscimento dell’autorevolezza della medicina. Se ci pensiamo bene tutta la nostra vita si basa sulla fiducia in qualcosa o qualcuno. Non possiamo vivere senza fiducia, non possiamo vivere senza prudenza. Ma la giovinezza ci chiama a essere spericolati e l’età di mezzo a guardare con un po’ di rimpianto quella libertà e quella sfrontatezza che abbiamo conosciuto da giovani. Certo, le giovani generazioni dovranno imparare a elaborare il trauma della distanza fisica e della scuola in DAD, ma ci riusciranno, chi prima e chi dopo, ognuno a modo suo e con i suoi tempi. Mi colpiscono molto di questi tempi soprattutto le storie degli anziani che in questi anni di pandemia hanno fatto ordine nelle proprie case, nei ricordi, hanno regalato le cose preziose o significative, buttato quelle che non lo erano più e poi hanno cominciato a progettare nuovi viaggi, cene con gli amici e hanno imparato ad accettare la perdita come una dimensione stabile della nostra vita. Dunque le parole di questi giorni sono incertezza, fiducia e perdita. Un’oscillazione continua di senso che delinea e delimita la condizione umana. E che per questo rende la nostra esperienza, il nostro passaggio su questo bellissimo pianeta, così straordinario. Mi sto chiedendo spesso se continuerò a scrivere queste Cronache ancora a lungo e penso che lo farò, perché sono un esercizio quotidiano, una ricerca personale di senso per me e per i miei lettori e mi concedono la gioia di una condivisione. Scrivo perché mi piace scrivere, perché è il mio modo di stare al mondo, perché l’atto dello scrivere mi riporta ai libri e agli autori che amo, alla grazia di averli nella mia vita, alla gratitudine.
Oggi è sabato 12 febbraio del 2022, terzo anno senza
Carnevale e questa Cronaca 706 è meditabonda e riflessiva quanto me che la sto
scrivendo, perché al contempo è lei a scrivere in me, a portarmi il mondo e a portarmi
nel mondo.
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