Giornata d’inverno di nuovo, ma chi se ne importa quando
si può stare al calduccio in un buon libro di poesia? Leggo e rileggo torno
indietro, sottolineo ancora, mi preparo con cura e poi vado alla Libreria delle
Donne a presentare Così diviso il corpo
di Paola D’Agnese. Gli dei della poesia non sono propizi all’inizio
dell’incontro, il poeta Maurizio Cucchi, che ha scritto la prefazione al
volume, non può partecipare, ma ha mandato un video. Che sul pc della libreria
non si riesce a proiettare. Così Francesca corre a casa a recuperare il suo pc,
ma poi non riusciamo subito a collegare gli altoparlanti, per fortuna dopo un
po’ di tentativi tutto funziona ascoltiamo il suo intervento e poi tocca a me.
“Non conoscevo Paola D’Agnese e la sua poesia prima di
questo libro ed è stata per me una felice scoperta.
Quando leggo un libro nuovo di poesie inizio con
l’aprirlo a caso, mi fermo, sottolineo, metto le stelline, vado avanti e
indietro.
Poi lo leggo in ordine per cercare di cogliere
l’intenzione del poeta, la sua voce, l’architettura, il destinatario delle
poesie, perché credo si scrivano sempre poesie avendo in mente qualcuno.
Quando mi sembra di avere trovato il punto d’ingresso in
questo immaginario poetico, lo uso come punto di partenza per cercare di
svelare i segreti della tessitura.
La voce poetica di Paola è molto chiara e precisa, non si
sono astrazioni difficili da collocare nel nostro spazio interiore, ma precise
immagini del mondo, gesti, considerazioni.
Così nella prima sezione Dove il sentiero si stringe appaiono in sequenza: strada – radura –
sentieri - un salto – il giorno – un
altro salto - una piccola baia – il mare
– le navi – il mondo – il buio – il pane quotidiano – il sentiero – la croce
- il sasso – il prato - il vento -
la preghiera… Le azioni sono: il guardare – il saltare – il pregare – il
camminare.
È il corpo, corpo poetico, corpo immaginato e corpo reale
che è il nesso tra la poesia e il mondo, le cose, gli avvenimenti, gli altri.
Soprattutto un altro, qualcuno che ancora ci sfugge e verso il quale l’io
poetico si dirige. È gennaio, è di nuovo il vento a indicare la rotta, e in un
attimo siamo in estate, possiamo fermarci sotto “alberi immensi i cui rami sono
state radici divenute alberi e poi radici e poi alberi”. La poesia di Paola
D’Agnese è una poesia fatta di sostantivi e di verbi, di pochi aggettivi, dove
tutte le parole sono utilizzate con la massima precisione e contribuiscono a
definire la precisione scarna di ogni verso.
Traspare un’immensa solitudine in queste poesie, una
solitudine metafisica che è propria della condizione umana e dove l’altro di
noi è preso tra nostalgia, desiderio e perdita.
Soprattutto è un ricordo, un’invocazione o anche
un’evocazione favorita da questa adesione dell’io poetico al mondo come se una
carezza scorresse lungo la guancia e il poeta potesse lasciarsi andare con
fiducia a ciò che vede e sente, perché sa che il mondo non lo tradirà.
Il mio punto d’ingresso in quest’opera è stata di certo
la poesia dedicata “a mia madre” (a pag.
26) forse perché ho perso la mia di recente e la potenza della poesia sta anche
nel parlare ai molti sconosciuti che ci leggeranno e sentiranno di poter dire
anch’io, anch’io sento questo, io ti capisco, noi siamo vicini.
Fuori il recinto dell’inverno
non vedo nessuno
nessuna cosa che ti somigli.
Non serve cercarti
stai sulla cima.
Lo sguardo verso il mondo
Nella seconda sezione Il
suono della luce è proprio la poesia di pag.37 il cui verso finale presta
il titolo alla sezione stessa
Ci sono boschi di pensieri
che attraverso in silenzio
mentre tu mi attraversi
lasciando mille oggetti
che riconosco tutti
uno ad uno.
Posso guardarti e udire stupefatta
il suono della luce.
Accade così il miracolo della poesia, quando l’incontro è
così potente da scatenare una sinestesia e l’io poetico può ascoltare il suono
della luce.
Notevole è la poesia di pag. 39
Finalmente fiori sul ramo.
Guardo dove incontro bellezza.
Poche cose al bisogno:
ginestre e vino sulla tavola
alberi a regalare ombra
acqua per le notti sfinite
mani in forma di sogni
poca ma buona terra
intorno alla casa
a consentire
le nostre piccole storie di poeti.
Una poesia che ha fatto risuonare in me i versi di Velimir Chlebnikov in 47 poesie facili e una difficile a cura di Paolo Nori, Quodlibet
2009
Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.
Perché la poesia è davvero lingua scarna che trasfigura
la vita, è l’uso non comune della lingua comune che con un ritmo diverso dalla
parola piana della prosa e della conversazione, costringe il nostro essere a
sobbalzare e ad accedere in un altrove che capiamo di avere anelato solo quando
ci siamo arrivati e chiamiamo chi ci è caro a raggiungerci. (pag. 40)
Dammi l’ossigeno
del tuo passo negli occhi
le tue dita che nell’aria
mi disegnano il mondo.
Il tuo nome in tempesta
nella casa che dorme il tuo
volto segreto dove riposo.
Sono il luogo vasto e
ventoso che ti accoglie.
Vieni.
È proprio nelle poesie di questa sezione che la
solitudine si fa meno dura e la condivisione concreta: (pag. 42)
Bianco questo vano disegno di luce
striscia di terra sottratta alla marea.
Lascio la tenda che non dà più ombra
scendo le mie scale in salita.
Silenzio.
Le foglie d’argento dell’ulivo.
E un passo che nessuno ha sentito.
E sapere che solo con l’altro siamo stati capaci di
segnare insieme l’infinito come nella poesia di pag. 44:
A
Francesco
Spezzato il cerchio che ci teneva
ho smarrito la chiave e altro.
Ciò che ridà sorriso è scorgerti nell’ombra
venire su da sola all’altare di pietra
dove insieme segnammo
– ai nostri occhi di allora –
l’unico infinito.
Ma la perdita è inevitabile, perdiamo sempre qualcosa o
qualcuno, perdiamo noi stessi a volte. (pag. 47)
Le mani scalze
il cuore riposato
i pensieri limpidi
la parola chiave per aprire l’amore.
Dove sono?
Mi sopraffanno piccole
esili risposte.
Ma resto sulle tue palme dolci
nella tua voce gelida pulita
perdendo colpi
perdendo anni.
Ti perdo finalmente.
È la poesia allora a darci la forza per disegnare un
senso.
L’abbandono dell’arco
è la terza sezione che si apre invece con una serie di aggettivi feroci sulle
parole, perché è come se fosse il bianco della pagina a vincere sempre, a
vincere anche la forza impetuosa della poesia, come se anche questa salvezza ci
fosse negata (pag. 51)
Avide livide restie
fulgide frigide accecanti
furiose rassegnate feroci
trasparenti opache impavide
mute assordanti
solide liquide necessarie
inutili le parole.
Dissanguate dissolte
dal bianco della pagina.
E nella seconda poesia della sezione a pag. 52
Mille piani mondi di attese
nelle lunghe file per il pane.
Si è reso necessario
l’abbandono dell’arco
e quotidiano il gesto di affilare
le lame dei coltelli.
ho sentito risuonare la Russia feroce di Osìp Mandel'štam
Come acqua oscura bevo la torbida aria,
il vomere ha arato il tempo e la rosa
fu già terra.
E poi anche quella di Marina Cvetaeva di cui ecco un frammento dal diario:
“Alle 10 la giornata è finita. Talvolta sego e taglio
legna per il giorno dopo. Alle 11 o alle 12 vado a letto. Sono felice del
lumino proprio accanto al guanciale, del silenzio, del quaderno, della
sigaretta, talvolta - del pane. Scrivo malamente, in fretta. Non ho annotato né
le ascensions in soffitta - niente scala (l'hanno bruciata) - mi isso con una
corda - per prendere le travi, né le continue ustioni delle braci che
(impazienza? esasperazione?) afferro direttamente con le mani, né le corse su e
giù per i kommissionnye (che abbiano venduto tutte le mie cose?) e per le
cooperative (che distribuiscano?). Non ho annotato la cosa più importante:
l'allegria, l'acutezza di pensiero, le esplosioni di gioia ad ogni più piccolo
colpo di fortuna, l'appassionata tensione di tutto l'essere - tutti i muri sono
coperti di versi e di NB! per il taccuino.
In
soffitta
(Dagli
appunti moscoviti, 1919-1920)
È nella poesia di pag,. 56 che scopriamo il senso del
titolo “Così diviso il corpo”, corpo che cerca l’altra sua parte:
Ad
Andries
Ancora lontano il temporale
la tristezza nuda sul tavolo
tra il lampo e il lampo un altro
che separa gambe e braccia. Così diviso il corpo
cerca l’altra sua parte.
I pensieri non hanno più nome.
Siamo piccole stelle
sul volto osceno del mondo.
È questa la sezione più dolente dove le lacrime vengono
usate per lavare gli specchi, le lacrime conservate per ogni ragione, come
leggiamo a pag. 59:
Da tempo conservo lacrime
me le conservo tutte
me le costringo in petto
in ordine perfetto
con la data e un colore per ogni ragione.
Nell’umido d’un tratto
ho deciso di usarle
mi sono servite a lavare gli specchi.
Non so se questa mia intuizione è corretta, ma ho sentito
che le poesie di questa sezione finale sono state scritte prima delle altre,
perché vivono ancora di una rabbia e di un’amarezza che non appartiene a quelle
precedenti. Ma se la rabbia è qui, è stato sottile mettere in fondo questi
versi per creare così uno spiazzamento in noi lettori.
Ci sarà una festa? Ci sarà una riappacificazione con il
mondo?
Sì, e a dirlo è la sorpresa, la poesia finale, nascosta
dopo l’indice e altre pagine, dove è la nascita, una rinascita che chiude
questo percorso a (pag. 79)
Aria.
Luccicare d’ardesia.
una stagione piccola
per i miei grandi occhi.
Fiore di una pianta
mai vista
nasci adesso,
nasco, mi vedi.
Ho poi scoperto che la mia intuizione era corretta e la
grazia e la forza dei versi letti da chi li ha composti hanno accompagnato
questi momenti di un pomeriggio milanese che ne è uscito trasfigurato.
Oggi è sabato 5 febbraio del terzo anno senza Carnevale e
questa Cronaca 699 svolazza nella notte insieme alla poesia.
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