Riprendo il filo del discorso di ieri sulla carta, gli alberi e la luce. Lo riprendo perché ho iniziato a rileggere un piccolo libro prezioso di Junichiro Tanizaki, il Libro d’ombra:
“La carta, dicono, è invenzione cinese. Io posso dire soltanto che la carta occidentale altro non mi trasmette che l’impulso a usarla; se, invece, mi chino a osservare una carta cinese, o giapponese, a poco a poco mi sento invaso dalla quiete e dal tepore. La bianchezza stessa è diversa. Se la carta occidentale sembra respingere la luce, quella cinese, o giapponese, la beve lentamente, e la sua morbida superficie è simile al manto della prima neve. È una carta cedevole al tatto, e che si lascia piegare senza rumore. È placida, delicata, leggermente umida. Somiglia alle foglie degli alberi”.
Mi piace molto questo approccio sensoriale alla carta. Alla sua bianchezza, alla sua capacità di offrirsi alla luce, al suo silenzio.
Dal mondo dell’immaginazione a quello della carta
Tace la carta, tace quasi
sempre, tace se noi non
la stropicciamo tra le dita,
tace quando la lasciamo
intonsa, senza figure e
senza parole. Tace la carta
ma ci ascolta nel suo
silenzio millenario e nelle
molte forme in cui l’abbiamo
plasmata ci attrae a compiere
quel gesto della mano, a
impugnare una penna o
una matita e a consegnarle
immagini e versi che smettono
di essere solo nostri, che
smettono di esistere nel
mondo invisibile della
nostra immaginazione.
Dopo avere scritto questa breve poesia mi soffermo ad
accarezzare il libro di Tanizaki, il quaderno su cui sto prendendo appunti e
poi annuso i fogli, anche gli odori sono molto diversi. Questa Cronaca 701 di
lunedì 7 febbraio del terzo anno senza Carnevale ne è incantata e ancora non ha
deciso quale preferisce
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