Le voci sono aria che vibra, ma non sempre. Ci sono giorni in cui, come oggi, le voci sono fatte di legno, o di vetro, o di luce. A volte sono anche fatte di neve o pioggia, le voci, a volte anche di mare o di miele.
Le voci che ho ascoltato oggi in giro per il mio
quartiere nella città silenziosa, erano voci di vetro, voci stanche, voci in
fuga dal chiuso delle stanze. Ha riaperto la gelateria di via Marghera e c’era
un po’ di gente in coda, tra cui un ragazzo con un cacatua sulla spalla
sinistra. Tutti i tavolini nei dehor erano pieni di gente che beveva spritz. Se
non fosse stato per le mascherine di chi stava camminando poteva essere un
tardo pomeriggio qualunque, dove dopo il lavoro la gente si fermava a chiacchierare
e a bere, facendo programmi per la sera. Oggi per me è il primo anniversario da
quando mi sono chiusa in casa a lavorare. Avevo letto uno studio prodotto da
uno statistico dell’università di Pavia e avevo detto alla mia capessa che
sarebbe stato imprudente continuare ad andare in giro. Lei mi aveva
apostrofato, nervosissima: “Mi rifiuto di diffondere fake news! Tu se vuoi
stare casa restaci, ma noi dobbiamo pianificare le presenze in ufficio, almeno
due o tre giorni alla settimana ciascuno”. A nulla era valso farle notare che
lo studio pronosticasse oltre settemila contagiati alla fine di quella
settimana. E così fu, io ero chiusa in casa, sgomenta e incredula come tutti in
quei giorni, giorni che stanno raddoppiando, più di un anno è passato e lo
sgomento non è mai diminuito. Continuo a sperare, in fondo ai miei pensieri,
che questo coronavirus scomparirà così com’è arrivato e come ha fatto nel 1919
la Spagnola. Sono tempi duri e bizzarri, molto meno duri dei decenni bui del
Ventesimo secolo, ma ancora non riusciamo a immaginare come sarà non essere più
confinati tra le mura domestiche. Così appena posso esco a raccogliere le voci
di vetro dei miei concittadini e per ciascuna scrivo un’etichetta per il vaso
trasparente in cui la riporrò.
Per questo
respiro che ci accompagna nella vita
Una voce ha bisogno d’aria e
di un corpo che la formi e di
altri corpi che la ascoltino.
La voce vive nelle registrazioni,
ma non è mai la stessa cosa
ascoltare e ascoltarsi dopo
il momento esatto della prima
pronuncia. È difficile ricordare
le voci, anche quelle di chi
abbiamo amato. Forse perché
tutta la nostra memoria è
intenta a salvare le immagini
e per le nostre povere voci
di vetro e paura, non c’è
abbastanza spazio e mai
ce n’è stato. Il sole è
tramontato e la prima
stella scuote il cielo e
chiama, ma nessuno qui
sulla terra risponde. Abbiamo
perso l’aria nelle parole e
solo per salvare questo
respiro che ci accompagna
nella vita.
Salvare le voci, ma come farlo? Come restituire l’intonazione,
l’inflessione e la pronuncia? Di quel che siamo e che siamo stati, la voce è l’elemento
più misterioso. Niente dalla superficie del corpo lascia immaginare la forma
che l’aria prenderà fuori dai nostri polmoni.
Quando arrivo a casa sento il solito cagnolino abbaiare,
e la gente che si ferma sotto l’albero bellissimo a dire le ultime parole. Nella
cassapanca ripongo queste voci di vetro che mi hanno ricordato il giro delle
stagioni, l’inverno finisce, la primavera esplode, nascono i cuccioli,
ricominciamo a sorridere. Sì, ricominciamo e parliamo, riempiamo di canti tutta
l’aria intorno e ricordiamo alla memoria che ogni immagine ha avuto una voce, e
che noi l’abbiamo udita.
Oggi è giovedì 25 febbraio del secondo anno senza
Carnevale e questa Cronaca 354 nasce da un respiro e da una poesia costruita
tutto attorno: Per questo respiro che ci
accompagna nella vita è inedita e già sente la primavera che sta arrivando.
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