domenica 21 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/350: una stagione breve all’ombra del vulcano

 



I vulcani esercitano un’irresistibile attrazione su noi umani, soprattutto se sono in piena eruzione e zampillano lava e lingue di fuoco. Una potenza ctonia, primigenia, che ci riporta al nostro stato selvaggio quando la terra, gli animali e gli eventi naturali erano dèi che dominavano il mondo. Un vulcano inattivo lo immaginiamo come se fosse un drago addormentato. Se un vulcano si risveglia, ecco che pensiamo a una punizione divina o a una vendetta della natura. Balliamo come baccanti sulla bocca del vulcano, ci innamoriamo alla sua ombra, andiamo alla ricerca delle tracce di Empedocle che la leggenda vuole si sia suicidato nel cratere.

La “Montagna” o “Idda” come la chiamano i catanesi, esercita un fascino irresistibile anche sui non indigeni. Sulle falde dell’Etna si può sciare mentre si guarda il mare, i paesini della cinta etnea offrono paesaggi mozzafiato, boschi profumati, cibi deliziosi.

Ho visto l’Etna per la prima volta alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Ero ubriaca d’amore e meraviglia, e la Sicilia mi aveva accolta come se il mio fosse stato un ritorno. Gli eucalipti e le zagare in fiore inondavano l’aria di un profumo che dava alla testa. Tutto era esondante, sopra le righe, gli alberi, il cibo, le persone, la musica jazz suonata in piccoli locali catanesi. Le notti infinite di primavera erano inframmezzate da soste nei chioschi a bere limonata, i forni aperti, gli arancini bollenti, i cannoli appena riempiti, la colazione all’alba con una brioche calda e una granita alla mandorla macchiata di granita al caffè.

I profumi e i sapori sono tra i ricordi più intensi di quella prima visita. Ricordo la gentilezza dei catanesi, una vecchia signora che abitava in uno dei paesini etnei che dormiva con una valigetta sotto il letto: la collana di perle di sua madre, un po’ di denaro, le fotografie di famiglia e un ricambio di biancheria. Se la Montagna si fosse infiammata era pronta alla fuga con l’auto sempre in posizione sul viale della sua villa circondata da una pineta e da un bosco di eucalipti.

Dopo il primo impatto da Catania, potei ammirare l’Etna dal Teatro Greco di Taormina, uno dei paesaggi più belli del mondo. La Montagna era lassù e sembrava chiamasse. Trascorse ancora un po’ di tempo e finalmente decidemmo di salire verso la cima. Si poteva arrivare in macchina sino a un certo punto, poi in funivia e ancora qualche tratto a piedi. Non erano passati molti mesi dall’ultima eruzione, la nuova colata di lava non si era ancora del tutto raffreddata. Io non avevo voluto mettere gli scarponi protettivi e così avevo condannato le mie Reebok nere, comprate a New York, a un triste destino: le suole di gomma si sciolsero e quando tornai giù sembrava che avessi le zampe di Paperino anziché i miei piedi. La guida che ci aveva accompagnati era sopravvissuta all’eruzione che falcidiò numerosi turisti alla fine degli anni Settanta. Si premurò di raccontarci i dettagli più orribili di quella giornata, ma mai, mai per un istante, nessuno dei presenti pensò che potesse capitare anche a noi. Quando arrivammo nel punto più alto, l’aria era rarefatta, il calore saliva dalla lava con un’energia che impregnava tutto e tutti. La costa calabrese era visibile e così vicina che sembrava di poter allungare una mano per raggiungerla. Scilla e Cariddi emersero dalle acque e i Ciclopi uscirono dai loro antri, mentre Polifemo urlava il proprio dolore contro quel Nessuno che lo aveva beffato.

Forse tutti quelli che vivono sulle pendici di un vulcano sono convinti che niente di male potrà accadere loro, devoti a una divinità benevola che regna dalla terra al cielo.

Ho sempre associato l’attività vulcanica alla creatività poetica e letteraria, perché come la lava, la parola sgorga da profondità sconosciute, rossa, veloce, incandescente, si poserà da qualche parte, si raffredderà e sedimenterà. Ho un minuscolo frammento della Montagna sulla mia scrivania, un frammento raccolto in quel giorno lontano e che, quando lo tocco, ho sempre l’impressione di sentire le grida dei mostri e il canto del vulcano. Un canto che è possibile sentire di notte, quando il cielo è sereno e le stelle brillano per salvare Empedocle dalla sua morte e Polifemo dalla cecità.

 

Una stagione breve all’ombra della Montagna

 

Parla una lingua di fiamma questo

vulcano, dorme e si sveglia quando

ne ha voglia, si scuote di dosso

il tempo e tutta la città è costretta

a danzare al suo ritmo e a ricordare

chi comanda lassù. Il suo cuore nero

è diventato una strada, la sua cenere

feconda ha impregnato i campi, e

profumano le zagare, sbocciano tutte

le mimose quando nella mia terra è

ancora il gelo a dirigere l’orchestra

dei giorni. Quanto profumano i ricordi,

quanto erano belli quei volti giovani

che si sono amati per una stagione breve.

 

Torno a guardare i video più recenti delle nuove eruzioni e consegno di nuovo al passato quei giorni incantati, proprio ai piedi della Montagna, guardando il mare. La poesia che accompagna questa Cronaca 350 è inedita e l’ho scritta oggi, domenica 21 febbraio del secondo anno senza Carnevale.

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