martedì 26 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/324: l’oggi ha creduto in se stesso, oppure è caduto



Che relazione c’è tra l’artista e il suo tempo? E questo tempo di pandemia come si mette in relazione con gli artisti?

Nel XXI° secolo si può continuare a essere artisti come lo si era nel XX°? Mi faccio questa domanda dopo aver letto che la giovane poetessa Amanda Gorman, la cui notorietà è esplosa il giorno dell’insediamento del nuovo Presidente americano, è stata messa sotto contratto da una nota agenzia di modelle, è molto bella quindi non è strano. Ma lei scrive poesie, è un’attivista politica, perché fare la modella?

Oggi ho condiviso, grazie all’Associazione Culturale “Apriti Cielo”, una breve, ma non troppo, conversazione con alcune persone interessate a sapere qualcosa di più delle poetesse americane Anne Sexton e Sylvia Plath. È dagli anni Ottanta del secolo scorso che le leggo e le studio, ne scrivo – sull’Enciclopedia delle donne ci sono le due voci dedicate a loro – mi interrogo sulla loro voce poetica e sul loro destino di donne.

Il loro incontro avvenne nel gennaio del 1959 a un workshop dedicato alla poesia tenuto dal padre della poesia confessional Robert Lowell alla Boston University. Le due poetesse, non ancora famose ma già suicide, si riconobbero, si fiutarono, si studiarono, condivisero ogni volta con l’amico George Starbuck almeno tre Martini extra-dry, patatine fritte e lunghe conversazioni sui metodi migliori per suicidarsi, come descrisse la Sexton in un ricordo scritto dopo la morte della Plath,: «Spesso molto spesso, Sylvia e io riparlavamo dei nostri primi tentativi di suicidio: molto, in dettaglio e in profondità fra una patatina fritta e un’altra. Il suicidio, dopo tutto, è il contrario della poesia. Sylvia ed io la vedevamo spesso in maniera opposta, ma parlavamo della morte con ardente intensità, entrambe attratte da questa come le zanzare dalla luce elettrica».

Finito il seminario si scrissero qualche volta ma non si videro mai più. Ci sono brevi cenni sulla Sexton nei Diari della Plath; sappiamo che quando venne a conoscenza del suo suicidio tre settimane dopo l’accaduto, la Sexton si rammaricò che, anche quella volta, Sylvia fosse arrivata prima di lei. C’è poi un blando scambio di lettere dove vengono scritte opinioni sui libri pubblicati e sulla vita quotidiana. Coltivare patata e allevare api sono due delle attività che impegnavano la Plath nella sua fattoria nel Devonshire e che la Sexton riportò nella sua poesia La morte di Sylvia.

Entrambe avevano smascherato l’implacabile meccanismo del Sogno Americano che le aveva imprigionate. Anche se Anne aveva vissuto con più noncuranza e senza grandi obiettivi sino a quando non aveva scoperto che scrivere sonetti le veniva spontaneo, e che scrivere la faceva stare meglio. Soprattutto da quando era diventata madre e non sapeva fare fronte ai suoi doveri genitoriali. Scrivere era l’unica cosa che le interessasse, ormai.

In un’intervista rilasciata alla Paris Review nell’agosto del 1968 la Sexton ricorda così quel periodo: «Fino ai ventotto anni avevo una specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Non sapevo di avere alcuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzettino di vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale, perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito si aspettava da me… Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi».

La Plath, invece, voleva essere tutto, brava figlia, madre, moglie, poetessa, insegnante e scrittrice. Questi desideri folli vennero meno quando andò a insegnare nella sua stessa università a Boston e scoprì che l’insegnamento aveva bisogno di tempo e studio, tempo e studio sottratti alla poesia.

Il loro fortunato incontro avvenne in un’epoca d’oro della poesia americana e occidentale e quella piccola comunità di riferimento fu fondamentale perché le loro radici si fortificassero. Per questo motivo sono convinta anch’io che per gli artisti, per chi scrive soprattutto perché questa è la mia arte, sia importante confrontarsi con altri poeti e scrittori, per farsi da specchio reciproco e condividere le ossessioni e le passioni. Che i primi lettori siano altre persone che scrivono aiuterà di sicuro nel portare avanti la propria ricerca e i propri progetti prima di arrivare al più vasto pubblico dei lettori.

Forse quando si scrivono solo romanzi questo passaggio è meno complicato, più complicato lo è quando si scrive poesia. Che non è mettere sulla carta le proprie emozioni, ma riuscire a combinare metafore, ricordi, immagini, parola, forma ritmo in quella misteriosa alchimia che fa di una poesia una poesia.

È poi lo spirito del tempo che va indagato, compreso e attraversato, ma su questo tema ritornerò, così come voglio continuare a riflettere sulla necessità di una comunità di riferimento per gli artisti, anche se il luogo da cui la poesia e la scrittura scaturiscono, è sempre un luogo misterioso.

Sylvia Plath scriveva questo delle origini della sua poesia:

«Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo… E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo di allora respira».

Il mondo di allora respira, perché la poesia salva e riporta in vita la gioia che abbiamo vissuto in qualunque momento.

Il titolo di questa Cronaca 324, scritta il 26 gennaio del secondo anno senza Carnevale, è un verso di Anne Sexton tratto dal poemetto La doppia immagine. 

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