martedì 10 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/2: ogni corpo è un mondo tinto di rosso


La percezione più immediata che ciascuno ha di se stesso è del proprio corpo come una barriera, un rifugio, un mondo, la cosa che ci contiene, che ci differenzia, che ci rende unici.
Il corpo non è mai stato davvero un elemento individuale, certo ciascun individuo è un corpo che la società e lo spirito del tempo in cui vive, disegnano e mettono in scena. Il corpo appartiene a Dio, al Re, alla Rivoluzione, alla Causa, alla Ditta, allo sguardo dell’altro. I nostri corpi di viventi del XXI secolo appartengono soprattutto all'autorappresentazione a mezzo selfie in una perpetua glorificazione di istanti che si susseguono l’un l’altro.
Questo fino all'altro ieri perché il nemico invisibile che ci assedia ci ha fatti ripiombare tutti nella reale carnalità della nostra esistenza terrena. E il nostro corpo è diventato quella fortezza che ci protegge e che dobbiamo proteggere a discapito della vita economica e sociale.
Ogni corpo che incrociamo è il portatore potenziale di una disgrazia, di una malattia che può condurci all'esito fatale e nel peggiore dei modi, senza più essere in grado di respirare.
Avete mai avuto una crisi respiratoria, rischiato di affogare? Riuscite, riusciamo a immaginare?
Conosco entrambe le esperienze, le ricordo molto bene, non mi risparmio nel ricordarle perché la paura che ho provato può aiutarmi a essere prudente.
Sono moltissime le persone ancora incredule rispetto alla perniciosità del Covid-19 ma dobbiamo imparare di nuovo a fidarci dell’autorevolezza degli esperti, fidarci degli anni che hanno passato a studiare e a lavorare per diventare esperti, uno non vale uno, la mia opinione da macchinetta da caffè vale per quello che è, appunto solo un’opinione. La falsa democrazia del web, le bolle che ciascuno si costruisce con le proprie navigazioni, ci offrono una platea potenzialmente infinita e ci rendono facili prede di venditori di fumo e incantatori da fiera. Essere esperti, avere studiato significa avere trascorso buona parte della propria vita seduti a studiare, a memorizzare le informazioni fondamentali della propria disciplina, a metterle in relazione, a confutarle, a sperimentarle, a provare nuove direzioni di ricerca. Lo studio è fatica, la scrittura è fatica e la disciplina che ci imponiamo, che imponiamo al nostro corpo è la prima condizione di ogni lavoro ben fatto.
I corpi di chi svolge lavori intellettuali e di ricerca, in questi giorni sono perlopiù rinchiusi nelle abitazioni, davanti a un pc o un tablet, a macinare informazioni, produrre report, condividere con i colleghi il lavoro che si sta facendo.
A Milano credo siano ormai migliaia gli abitanti che stanno facendo smart working e hanno il conforto della propria casa e dei propri cari, in una convivenza che esula da ogni scenario conosciuto e mette a dura prova la resistenza di ciascuno. La cosa più difficile, probabilmente, è tenere a bada e disciplinare l’energia sconfinata di bambini e adolescenti che non capiscono la portata reale del rischio, chi di noi adolescente pensava di essere una creatura mortale?
Vivere chiusi in casa, poterlo fare, è un privilegio legato alla professione, anche se molte di queste professioni del terziario avanzato (come si diceva una volta) sono mal pagate e precarie e si viene pagati un tanto al pezzo come a una catena di montaggio. Molto diversa è la situazione per chi svolge di cura, di beni di prima necessità. I loro corpi sono segregati in queste settimane negli ospedali, nei tanto temuti reparti di terapia intensiva. Il loro rischio di ammalarsi è infinitamente e statisticamente più alto rispetto a qualunque altra categoria sociale. Dobbiamo sperare che loro non si ammalino perché ogni medico e infermiere ammalato è sottratto alle cure di decine di pazienti. Poi ci sono i corpi dei negozianti, dei farmacisti, delle cassiere dei supermercati, degli addetti alle filiali bancarie e postali. Il loro lavoro è indispensabile al funzionamento della macchina sociale. Oggi in Lombardia e Veneto i politici locali stanno chiedendo misure ancor più drastiche di chiusura in queste regioni, una scelta che andrebbe a paralizzare per due settimane il cuore produttivo del Paese. È veramente necessario? È una scelta dovuta al buon senso o a un calcolo politico che li costringe a differenziarsi dalla politica nazionale per non esserne travolti?
Sono domande legittime, che ogni cittadino deve porsi, a prescindere dal proprio mestiere e livello di rischio.
Poi, ancora prima di chi lavora chiuso in casa, di chi lavora a contatto con i clienti, ci sono i corpi invisibili degli operai. Scomparsi dalla scena sociale da decenni continuano, invece, a essere il livello zero di qualunque catena produttiva. Gli scenari sono molto cambiati grazie all'automazione, ma ci sono lavori che possono essere impostati e realizzati solo grazie all'ntelligenza e alle mani dei lavoratori. Soprattutto quando si tratta di mestieri artigianali che realizzano pezzi unici. Le mani, le loro mani danno forma al mondo in cui abitiamo, rendono più bello il paesaggio urbano e quello domestico, ci consentono di scegliere tra molteplici oggetti che andranno ad arredare le nostre case e a definire il nostro stile personale.
Perché ho voluto mettere insieme queste piccole riflessioni a sfondo sociologico? La sociologia è la disciplina che più ho studiato nella mia carriera universitaria, nella facoltà di Scienze Politiche in via Conservatorio a Milano, un luogo che continua ad avere per me un fascino illuminista anche se è ormai un luogo irriconoscibile. Negli anni in cui frequentavo le lezioni i docenti erano, tra gli altri, Alessandro Pizzorno, Alberto Melucci, Giuseppe Abbatecola, Paolo Trivellato, Franca Pizzini, Bianca Beccalli, Paolo Maranini, Antonella Besussi, Guido Martinotti, Alberto Martinelli, e la sociologia riusciva a essere una guida per capire il nostro mondo e il nostro modo di vivere e mi sono resa conto di quanto lo studio folle e le letture di quegli anni abbiano contribuito alla mia formazione più di quanto non avessi compreso sino ad ora.
Per questo mi sono lasciata andare a questi pensieri scritti a mano – e poi copiati – perché le immagini dei nostri corpi, del mondo dentro di noi e del mondo fuori di noi costituiscono i mattoni del nostro mondo condiviso. Ognuno di noi vive un tempo, che è spazio continuo, e un luogo, uno spazio fisico preciso, un istante alla volta ed è solo la memoria a permetterci di ritornare in quei luoghi dove eravamo già stati.
Cosa ricorderemo tra dieci o vent'anni di questi giorni allarmati? Oggi possiamo solo rispettare gli altri e il loro duro lavoro perché il futuro possa prendere forma, perché il tempo che viviamo dia senso alla nostra vita.



1 commento:

Unknown ha detto...

Grazie per aver dato forma (poetica) a considerazioni che ci aiutano a rifletterè su questo fase così critica.