Prima di iniziare a scrivere lascio immagini, ricordi e
suoni affastellarsi in mente. Non cerco una direzione, un senso o un obiettivo,
mi lascio trascinare alla deriva verso un orizzonte che si allontana a ogni
movimento. È come galleggiare in un mare quieto e sentire le onde che mi
sostengono e la profondità dell’abisso che mi guarda dall'altro versante della
realtà. Mi chiedo da sempre, da quando ho sentito in me l’urgenza dello
scrivere, ero un’adolescente, a quando ho deciso che scrivere, diventare una
scrittrice, una poetessa erano tutto ciò che mi interessava diventare, non
fare, ma diventare. La presa di consapevolezza nacque dopo alcune letture
fondamentali fatte nell'estate dei miei diciannove anni, dopo gli esami di
maturità. I libri furono i Diari di
Anais Nin, la biografia di Lou Andreas Salomé Mia sorella, mia sposa di H. F. Peters, Le parole per dirlo di Marie Cardinal, Il giuoco delle perle di vetro di H. Hesse e, soprattutto, Il diario di una scrittrice di Virginia
Woolf nella prima edizione Oscar Saggi Mondadori del 1979 tradotta da Giuliana
De Carlo. I libri della Cardinal e della Nin li scoprii grazie a Sandra, una
ragazza pavese conosciuta al mare a Celle Ligure e che era amica della mia
amica Antonia. Lou Salomé la trovai in libreria, mentre Hesse e Woolf furono un
prestito mai onorato dal ritorno a casa del legittimo proprietario dei libri. È
uno dei due soli episodi in cui non ho mai restituito un libro preso in
prestito. Le anime morte di Gogol mi
vennero prestate dalla mia madrina di battesimo Rosetta, che era una collega di
mia madre nel laboratorio sartoriale dove entrambe lavoravano duramente per
cucire biancheria di seta destinata alle signore borghesi. Il diario della
Woolf aveva attirato la mia attenzione per la copertina bianca e il famoso
ritratto in bianco e nero custodito alla London National Portrait Gallery. Il libro
era su una mensola con la copertina in bella vista, quindi lo presi in mano per
sfogliarlo. Un brivido, una scossa, emozioni fortissime si susseguivano a ogni
rigo, non riuscivo a smettere di leggere. Così Giorgio, il mio ospite che mi
aveva portato a casa di suo fratello Gherardo, un medico che era in viaggio in
Asia, mi disse che potevo prenderlo in prestito. Giorgio era un mio compagno di
università, ci eravamo conosciuti alle lezioni di Economia Politica del prof.
Tullio Biagiotti alla facoltà di Scienze Politiche in via Conservatorio a
Milano. Il mercoledì alle 18, quando il professore entrava in aula io e Giorgio
uscivamo e iniziavamo a girovagare per il centro di Milano. A volte andavamo in
Brera, al bar Jamaica che pullulava ancora di artisti di vario genere e Mamma
Lina girava tra i tavoli, a volte andavamo fino alla sede della Statale in
Largo Richini e ci fermavamo dallo Stregone,
la miglior gelateria che io ricordi di quegli anni, a gustare una coppa dello
stregone: gelato, frutta, panna montata. Di cosa parlavamo? Di noi, del nostro
futuro, delle nostre relazioni amorose, delle ambizioni artistiche – Giorgio voleva
diventare un fotografo alla Cartier-Bresson e una delle sue stampe che mi ha
regalato, un camino in una casa di campagna nella bergamasca, è appeso nella
mia cucina e mi piace ancora, dopo tutti questi anni trascorsi. Lui fu il mio
amico del cuore per il primo anno di università, anche se quella cena l’aveva
organizzata con ben altri desideri in mente. Mangiammo un cous-cous buono,
bevemmo del vino rosso, ascoltammo musica jazz, e parlammo fino allo sfinimento.
Quando ben dopo la mezzanotte tornai a casa avevo nella mia borsa i due
preziosi volumi, la Woolf più di tutto. Un mio desiderio aveva trovato dimora
nella vita della scrittrice più geniale di tutti i tempi. Ancora oggi, anche se
rileggo pagine consumate dagli anni e sottolineate come un aratro fa nella
terra, la sento risuonare in me con la stessa forza. Negli anni successivi, e
lo faccio ancora oggi, ho continuato a interrogare non solo le opere ma anche
le biografie, le autobiografie, gli epistolari e i diari di poeti e poetesse,
scrittrice e scrittori alla ricerca di quel qualcosa di imprendibile e
misterioso che quelli che scrivono hanno in sé. Non ho trovato risposte
definitive, o meglio, ne ho molte e tutte plausibili e valide, ma ciò nonostante
continuo nella mia ricerca. So che quando sto per iniziare a scrivere è come se
lo sguardo si rivolgesse all'interno di me e sento le parole che mi vengono a
cercare, che vengono da un altrove che non so definire, da un silenzio primordiale
che mi attraversa e mi sostiene. Questa vita autonoma e selvaggia delle parole e
della scrittura può dare l’impressione che le parole siano creature che si
scrivono da sole e forse è proprio così. Ma quando scriviamo, le parole che ci
hanno cercato e trovato, trascinano con sé il nostro essere profondo, le nostre
relazioni, i ricordi, le passioni e le idiosincrasie. Così il significato
collassa proprio in quella frase, quella frase che stiamo scrivendo, in un
verso che risuona perfetto come se non lo avessimo scritto noi. Il mondo si
allarga, assume nuovi significati, e noi siamo creatori e umili scriba allo
stesso tempo. La gioia prevale su qualunque altra emozione e diventa sentimento
dell’essere, un respiro profondo che espande anche l’anima. Ancora non so perché
le parole mi vengono a cercare, so che leggere è stata la pre-condizione che mi
ha portata a scrivere. So che lettura e scrittura sono come due solitudini
intersecate, quelle di cui ha scritto Ghiannis Ritsos nella poesia L'altra città di cui
non ricordo la raccolta e il traduttore, anche questo regalo di un amico, poeta
e che ama la poesia, anche se non ne scrive più. Tengo questo dono di Mimmo appesa
nella bacheca delle citazioni, su una parete della cucina. La città di Ritsos,
la città dei poeti è diventata la città di tutti noi in questi giorni dove
primavera e inverno ancora si contendono le nostre giornate luminose e abitate
da un silenzio irreale, interrotto solo dalla sirena delle ambulanze, dal
gracchiare delle cornacchie, dal suono di un portone aperto e chiuso in maniera
furtiva, giusto per vedere com'è la strada di fuori.
Esistono molte solitudini intersecate - dice - sopra e sotto
ed altre in mezzo; diverse o simili, ineluttabili, imposte
o come scelte, come libere - intersecate sempre.
Ma nel profondo, in centro, esiste l'unica solitudine -
dice;
una città sorda, quasi sferica, senza alcuna
insegna luminosa colorata, senza negozi, motociclette,
con una luce bianca, vuota, caliginosa, interrotta
da bagliori di segnali sconosciuti. In questa città
da anni dimorano i poeti. Camminano senza far rumore, con
le mani conserte,
ricordano vagamente fatti dimenticati, parole, paesaggi,
questi consolatori del mondo, i sempre sconsolati, braccati
dai cani, dagli uomini, dalle tarme, dai topi, dalle stelle,
inseguiti dalle loro stesse parole, dette o non dette.
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