domenica 22 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/14: le parole che mi vengono a cercare

Prima di iniziare a scrivere lascio immagini, ricordi e suoni affastellarsi in mente. Non cerco una direzione, un senso o un obiettivo, mi lascio trascinare alla deriva verso un orizzonte che si allontana a ogni movimento. È come galleggiare in un mare quieto e sentire le onde che mi sostengono e la profondità dell’abisso che mi guarda dall'altro versante della realtà. Mi chiedo da sempre, da quando ho sentito in me l’urgenza dello scrivere, ero un’adolescente, a quando ho deciso che scrivere, diventare una scrittrice, una poetessa erano tutto ciò che mi interessava diventare, non fare, ma diventare. La presa di consapevolezza nacque dopo alcune letture fondamentali fatte nell'estate dei miei diciannove anni, dopo gli esami di maturità. I libri furono i Diari di Anais Nin, la biografia di Lou Andreas Salomé Mia sorella, mia sposa di H. F. Peters, Le parole per dirlo di Marie Cardinal, Il giuoco delle perle di vetro di H. Hesse e, soprattutto, Il diario di una scrittrice di Virginia Woolf nella prima edizione Oscar Saggi Mondadori del 1979 tradotta da Giuliana De Carlo. I libri della Cardinal e della Nin li scoprii grazie a Sandra, una ragazza pavese conosciuta al mare a Celle Ligure e che era amica della mia amica Antonia. Lou Salomé la trovai in libreria, mentre Hesse e Woolf furono un prestito mai onorato dal ritorno a casa del legittimo proprietario dei libri. È uno dei due soli episodi in cui non ho mai restituito un libro preso in prestito. Le anime morte di Gogol mi vennero prestate dalla mia madrina di battesimo Rosetta, che era una collega di mia madre nel laboratorio sartoriale dove entrambe lavoravano duramente per cucire biancheria di seta destinata alle signore borghesi. Il diario della Woolf aveva attirato la mia attenzione per la copertina bianca e il famoso ritratto in bianco e nero custodito alla London National Portrait Gallery. Il libro era su una mensola con la copertina in bella vista, quindi lo presi in mano per sfogliarlo. Un brivido, una scossa, emozioni fortissime si susseguivano a ogni rigo, non riuscivo a smettere di leggere. Così Giorgio, il mio ospite che mi aveva portato a casa di suo fratello Gherardo, un medico che era in viaggio in Asia, mi disse che potevo prenderlo in prestito. Giorgio era un mio compagno di università, ci eravamo conosciuti alle lezioni di Economia Politica del prof. Tullio Biagiotti alla facoltà di Scienze Politiche in via Conservatorio a Milano. Il mercoledì alle 18, quando il professore entrava in aula io e Giorgio uscivamo e iniziavamo a girovagare per il centro di Milano. A volte andavamo in Brera, al bar Jamaica che pullulava ancora di artisti di vario genere e Mamma Lina girava tra i tavoli, a volte andavamo fino alla sede della Statale in Largo Richini e ci fermavamo dallo Stregone, la miglior gelateria che io ricordi di quegli anni, a gustare una coppa dello stregone: gelato, frutta, panna montata. Di cosa parlavamo? Di noi, del nostro futuro, delle nostre relazioni amorose, delle ambizioni artistiche – Giorgio voleva diventare un fotografo alla Cartier-Bresson e una delle sue stampe che mi ha regalato, un camino in una casa di campagna nella bergamasca, è appeso nella mia cucina e mi piace ancora, dopo tutti questi anni trascorsi. Lui fu il mio amico del cuore per il primo anno di università, anche se quella cena l’aveva organizzata con ben altri desideri in mente. Mangiammo un cous-cous buono, bevemmo del vino rosso, ascoltammo musica jazz, e parlammo fino allo sfinimento. Quando ben dopo la mezzanotte tornai a casa avevo nella mia borsa i due preziosi volumi, la Woolf più di tutto. Un mio desiderio aveva trovato dimora nella vita della scrittrice più geniale di tutti i tempi. Ancora oggi, anche se rileggo pagine consumate dagli anni e sottolineate come un aratro fa nella terra, la sento risuonare in me con la stessa forza. Negli anni successivi, e lo faccio ancora oggi, ho continuato a interrogare non solo le opere ma anche le biografie, le autobiografie, gli epistolari e i diari di poeti e poetesse, scrittrice e scrittori alla ricerca di quel qualcosa di imprendibile e misterioso che quelli che scrivono hanno in sé. Non ho trovato risposte definitive, o meglio, ne ho molte e tutte plausibili e valide, ma ciò nonostante continuo nella mia ricerca. So che quando sto per iniziare a scrivere è come se lo sguardo si rivolgesse all'interno di me e sento le parole che mi vengono a cercare, che vengono da un altrove che non so definire, da un silenzio primordiale che mi attraversa e mi sostiene. Questa vita autonoma e selvaggia delle parole e della scrittura può dare l’impressione che le parole siano creature che si scrivono da sole e forse è proprio così. Ma quando scriviamo, le parole che ci hanno cercato e trovato, trascinano con sé il nostro essere profondo, le nostre relazioni, i ricordi, le passioni e le idiosincrasie. Così il significato collassa proprio in quella frase, quella frase che stiamo scrivendo, in un verso che risuona perfetto come se non lo avessimo scritto noi. Il mondo si allarga, assume nuovi significati, e noi siamo creatori e umili scriba allo stesso tempo. La gioia prevale su qualunque altra emozione e diventa sentimento dell’essere, un respiro profondo che espande anche l’anima. Ancora non so perché le parole mi vengono a cercare, so che leggere è stata la pre-condizione che mi ha portata a scrivere. So che lettura e scrittura sono come due solitudini intersecate, quelle di cui ha scritto Ghiannis Ritsos nella poesia L'altra città di cui non ricordo la raccolta e il traduttore, anche questo regalo di un amico, poeta e che ama la poesia, anche se non ne scrive più. Tengo questo dono di Mimmo appesa nella bacheca delle citazioni, su una parete della cucina. La città di Ritsos, la città dei poeti è diventata la città di tutti noi in questi giorni dove primavera e inverno ancora si contendono le nostre giornate luminose e abitate da un silenzio irreale, interrotto solo dalla sirena delle ambulanze, dal gracchiare delle cornacchie, dal suono di un portone aperto e chiuso in maniera furtiva, giusto per vedere com'è la strada di fuori.

Esistono molte solitudini intersecate - dice - sopra e sotto
ed altre in mezzo; diverse o simili, ineluttabili, imposte
o come scelte, come libere - intersecate sempre.
Ma nel profondo, in centro, esiste l'unica solitudine - dice;
una città sorda, quasi sferica, senza alcuna
insegna luminosa colorata, senza negozi, motociclette,
con una luce bianca, vuota, caliginosa, interrotta
da bagliori di segnali sconosciuti. In questa città
da anni dimorano i poeti. Camminano senza far rumore, con
le mani conserte,
ricordano vagamente fatti dimenticati, parole, paesaggi,
questi consolatori del mondo, i sempre sconsolati, braccati
dai cani, dagli uomini, dalle tarme, dai topi, dalle stelle,
inseguiti dalle loro stesse parole, dette o non dette.

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