Mi siedo al telaio di un giorno nuovo, la finestra è aperta,
ascolto la luce che sale dietro il paravento degli alberi.
Tutto quello che ho è questo silenzio, tutto quello che sento
è il volo invisibile delle rondini che ancora non sono tornate.
È il cielo, il cielo increspato che annuncia il loro volo. Il
corpo tace in questa calma di voci, segue docile le mani che si affaccendano
sui davanzali a disordinare i fiori non ancora sbocciati. Così non so se sto
accarezzando i fantasmi di ciò che è stato o invocando la presenza di ciò che
potrebbe essere.
Il sole mi segue stanza dopo stanza, come un fedele
maggiordomo che illumina la casa per il suo signore che, forse, tornerà. Non mi
giro a spegnare le scintille di vita che reclamano un diritto che era
ineludibile. Fermati cuore, non saltare nel petto, non è primavera se non
lontano da qui.
Nonostante le ombre leggere nelle strade vuote, l’inverno
abita ancora nella città. Scrivono che i pesci siano tornati nella Laguna di
Venezia, che scoiattoli e piccole lepri scorrazzino nei parchi preclusi a noi
umani. Creatori delle parole che creano il mondo, siamo prigionieri e lo saremo,
di un indicibile che ci ha rigettato a essere creature della natura nella
natura, sottomessi alla stessa legge del fiore e della stella, del passero e
dell’alta torre.
Ora siamo più come fiori recisi cui nessuno ha cambiato l’acqua,
splenderemo per qualche giorno e poi saremo un groviglio di petali pallidi e
accartocciati.
Virginia Woolf scriveva nel suo diario «Io provo un senso di
fodere estive alle poltrone; di essere rimasta a casa mentre tutti sono in
campagna. Mi sento desolata, polverosa e delusa». Questo senso di fodere
estive di una casa disabitata è un sentimento che mi ha visitato in queste lunghe
giornate.
Continuo la mia tessitura del giorno nuovo, cercando di
infilare le ore come ordito nella trama mutevole dell’incertezza. Dunque, è
questo il tuo nome giorno nuovo? Questo il tuo tessuto che stento a riconoscere,
benché sia uscito dalle mie mani operose? Il giorno non risponde, disdegna le
mie invocazioni, cerco conforto in voci amiche che posso raggiungere al
telefono, cerco conforto nelle voci che posso solo ricordare e che risuonano in
me più alte del rumore di un rubinetto aperto in chissà quale casa affacciata
sul mio stesso cortile.
Così si intrecciano i desideri dei balconi ammutoliti con la
stizza dei giardini abbandonati.
Tutti dimenticano presto il loro nome se mai nessuno lo
pronuncia, se nessuno viene chiamato diventa d’acqua e nebbia tutta la città.
Possiamo scegliere di averne cura, di custodirne un
frammento per sfamare i giorni che verranno, come si fa con il pane secco che
diamo agli uccellini d’inverno, come le poche gocce che scendono a irrorare il
piccolo cactus impettito sulla scrivania.
È fatto di piccoli gesti il giorno che nasce, è spaventato e
lo dice con le nuvole che si sfilacciano anche senza aria furiosa.
Io tesso queste ore e mi ubriaco di vento, chiamo a voce
altissima i nomi di voi che non ci siete più e solo un’eco risponde a queste
grida.
È difficile stare fermi sulla soglia tra i due mondi, ancora
le mani non hanno finito di tessere il tempo, ancora il tempo non è finito.
Lo chiamo e mi risponde, con una voce antica che parla una
lingua profonda millenni. Io la capisco e so cosa fare, alzo le mani e afferro
il telaio.
Il grido di una sirena mi fa sobbalzare, sono sveglia. È di
nuovo mattino, uguale e diverso a quello di ieri.
Mi siedo al telaio di un
giorno nuovo, la finestra è aperta, ascolto la luce che sale dietro il paravento
degli alberi.
Resto in silenzio, disfo la tela iniziata, di nuovo ascolto
la luce e il lamento del cielo.
Apro le mani e solo nuvole ne balzano fuori, dal mio
ginocchio cresce un germoglio, le rondini fanno il nido tra le mie dita.
Posso chiudere gli occhi e tornare a sognare.
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