martedì 24 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/16: tessere il tempo, ascoltare la luce


Mi siedo al telaio di un giorno nuovo, la finestra è aperta, ascolto la luce che sale dietro il paravento degli alberi.

Tutto quello che ho è questo silenzio, tutto quello che sento è il volo invisibile delle rondini che ancora non sono tornate.

È il cielo, il cielo increspato che annuncia il loro volo. Il corpo tace in questa calma di voci, segue docile le mani che si affaccendano sui davanzali a disordinare i fiori non ancora sbocciati. Così non so se sto accarezzando i fantasmi di ciò che è stato o invocando la presenza di ciò che potrebbe essere.

Il sole mi segue stanza dopo stanza, come un fedele maggiordomo che illumina la casa per il suo signore che, forse, tornerà. Non mi giro a spegnare le scintille di vita che reclamano un diritto che era ineludibile. Fermati cuore, non saltare nel petto, non è primavera se non lontano da qui.

Nonostante le ombre leggere nelle strade vuote, l’inverno abita ancora nella città. Scrivono che i pesci siano tornati nella Laguna di Venezia, che scoiattoli e piccole lepri scorrazzino nei parchi preclusi a noi umani. Creatori delle parole che creano il mondo, siamo prigionieri e lo saremo, di un indicibile che ci ha rigettato a essere creature della natura nella natura, sottomessi alla stessa legge del fiore e della stella, del passero e dell’alta torre.

Ora siamo più come fiori recisi cui nessuno ha cambiato l’acqua, splenderemo per qualche giorno e poi saremo un groviglio di petali pallidi e accartocciati.

Virginia Woolf scriveva nel suo diario «Io provo un senso di fodere estive alle poltrone; di essere rimasta a casa mentre tutti sono in campagna. Mi sento desolata, polverosa e delusa». Questo senso di fodere estive di una casa disabitata è un sentimento che mi ha visitato in queste lunghe giornate.

Continuo la mia tessitura del giorno nuovo, cercando di infilare le ore come ordito nella trama mutevole dell’incertezza. Dunque, è questo il tuo nome giorno nuovo? Questo il tuo tessuto che stento a riconoscere, benché sia uscito dalle mie mani operose? Il giorno non risponde, disdegna le mie invocazioni, cerco conforto in voci amiche che posso raggiungere al telefono, cerco conforto nelle voci che posso solo ricordare e che risuonano in me più alte del rumore di un rubinetto aperto in chissà quale casa affacciata sul mio stesso cortile.

Così si intrecciano i desideri dei balconi ammutoliti con la stizza dei giardini abbandonati.

Tutti dimenticano presto il loro nome se mai nessuno lo pronuncia, se nessuno viene chiamato diventa d’acqua e nebbia tutta la città.

Possiamo scegliere di averne cura, di custodirne un frammento per sfamare i giorni che verranno, come si fa con il pane secco che diamo agli uccellini d’inverno, come le poche gocce che scendono a irrorare il piccolo cactus impettito sulla scrivania.

È fatto di piccoli gesti il giorno che nasce, è spaventato e lo dice con le nuvole che si sfilacciano anche senza aria furiosa.

Io tesso queste ore e mi ubriaco di vento, chiamo a voce altissima i nomi di voi che non ci siete più e solo un’eco risponde a queste grida.

È difficile stare fermi sulla soglia tra i due mondi, ancora le mani non hanno finito di tessere il tempo, ancora il tempo non è finito.

Lo chiamo e mi risponde, con una voce antica che parla una lingua profonda millenni. Io la capisco e so cosa fare, alzo le mani e afferro il telaio.

Il grido di una sirena mi fa sobbalzare, sono sveglia. È di nuovo mattino, uguale e diverso a quello di ieri. 

Mi siedo al telaio di un giorno nuovo, la finestra è aperta, ascolto la luce che sale dietro il paravento degli alberi.

Resto in silenzio, disfo la tela iniziata, di nuovo ascolto la luce e il lamento del cielo.

Apro le mani e solo nuvole ne balzano fuori, dal mio ginocchio cresce un germoglio, le rondini fanno il nido tra le mie dita.

Posso chiudere gli occhi e tornare a sognare.



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