Stiamo raccontando in moltissimi
tutti insieme la guerra, questa guerra non dichiarata che ci vede rinchiusi
nella trincea delle nostre case, con una percezione del pericolo amplificata
dalla concentrazione di ammalati e deceduti. Il bollettino delle 18 è diventato
un triste appuntamento e tutti sogniamo il momento in cui i numeri saranno
vicini allo zero. E poi?
I soliti Dioscuri della politica,
probabilmente disperati per la mancanza di visibilità che li schiaccia,
spingono sui fronti opposti, uno che vorrebbe chiudere tutto a tempo indefinito
e uno che vorrebbe riaprire dopo Pasqua. È impossibile per loro aspettare il parere
autorevole degli scienziati, dei virologi, epidemiologi, statistici. È vero che
è compito della politica agire per il bene comune, ma in questa situazione è il
fattore tempo a essere determinante. Un tempo denso come miele, che ci
imprigiona non solo i corpi ma anche la mente.
Però è importante iniziare a
pensare al dopo. Per non trovarci di fronte alla domanda fatidica “e adesso?”.
In migliaia stiamo scrivendo diari, testimonianze, cronache e lettere. Uno
sforzo letterario collettivo che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
Non è solo il tempo presente a
diventare materia di narrazione, il passato che non ritornerà deve essere in
qualche modo preservato e trasmesso alle generazioni future.
In uno dei film che più amo Lo sguardo di Ulisse, il direttore della
cinemateca di Sarajevo ha fatto di tutto per preservarne l’archivio. Questo
monologo è l’ultima prova attoriale di Gian Maria Volonté: “Poi, poi è
scoppiata la guerra e mi sono dedicato alla protezione della cinemateca, che ne
resti la memoria, era tutta la mia vita. E adesso che senso potrebbe avere
qualsiasi cosa, che senso può avere in mezzo a questo massacro?”. Il
protagonista del film, il regista greco chiamato con la sola iniziale A.,
intraprende un viaggio nei Balcani alla ricerca di tre bobine cinematografiche
dei fratelli Manakis, i pionieri del cinema che lo diffusero in quella regione
agli inizi del Novecento. È proprio dal vecchio direttore che A. trova le tre
preziose bobine e le salva. Dopo aver girato quella scena Volonté ebbe un
attacco cardiaco e morì; il suo personaggio venne interpretato da Erland
Josephson. Così Angelopoulos racconta dell’ultima volta che vide Volonté vivo:
“L’ultima sera stavamo tornando a Florina passando da Skopie, Gianmaria era
seduto da solo in fondo all’autobus, nell’ultima fila di sedili. Beveva e
cantava, io penso che abbia cantato tutte le canzoni che conosceva, da “avanti
popolo alla riscossa” a “bandiera rossa”, ho sentito tutte le canzoni che
conoscevo della sinistra italiana… ma credo che ci fosse qualcosa che non era
vera gioia, sembrava come un addio”. E addio fu, senza un saluto, come sta
accadendo alle migliaia di nostri contemporanei in ogni angolo del mondo, come
succedeva anche senza questa pandemia, senza che ci fossero molti scossoni nelle
nostre vite comuni. Sono i grandi numeri a terrorizzarci, la loro eccezionalità
e ripetitività. Lo sguardo di Ulisse racconta anche la dissoluzione dell’Europa
dell’est, emblematica la scena del barcone che trasporta una statua coricata e
spezzata di Lenin. Gli anni e i sogni spezzati di molteplici generazioni,
perché la Storia si presenta con i conti in mano ed è cieca. Forse è proprio lo
sguardo di Ulisse, del guerriero indomito, di colui che ritorna, è lo sguardo
che dobbiamo risvegliare in noi, consapevoli che non torneremo alla stessa
casa, che la sposa e il figlio sono cambiati così come il volto dell’eroe
omerico. Solo il letto nuziale, intagliato in un ulivo è identico a quello che
mani ben più giovani e forti avevano costruito.
Lo sguardo del ritorno, lo
sguardo del dopo, dobbiamo iniziare a immaginarlo questo dopo e a essere pronti
a fare bene quello che già sappiamo fare, con il cuore colmo di indulgenza e
speranza, consapevoli di non essere padroni di niente ma solo custodi di tutto
questo mondo che non ci appartiene. Neanche questo immenso silenzio è nostro,
la città lo inghiottirà di nuovo. La vita riprenderà, come dipenderà anche da
noi.
Angelopoulos finì di girare Lo sguardo di Ulisse senza Volonté. La
musica struggente di Eleni Karaindrou culla tutte le scene salienti del film.
Anche quando il regista arriva a Sarajevo immersa nella nebbia e incrocia dei
giovani che recitano Romeo e Giulietta.
Perché l’amore è la prima risposta e va mano nella mano con l’amicizia, con la
compassione, la pietà e l’empatia.
Francesco, un mio amico di
gioventù, strappato alla vita troppo presto, l’amico che mi ha ispirato il
protagonista del mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese, aveva
incontrato in non so più quale isola delle Cicladi Eleni e lui, che in Grecia,
ogni estate viaggiava con il suo sax tenore, aveva suonato con la musicista che
era uno dei suoi miti viventi.
La forza del dopo sta nel
raccontare ancora e ripetere le storie di chi è stato. Quando voglio ricordare
Francesco lo faccio ascoltando Ian Garbarek e The Hilliard Ensemble nel primo
brano di Officium. Ai tempi lo
ascoltammo insieme decine di volte. Ma una volta in particolare, seduti a casa
sua, le mani intrecciate, lo avevamo ascoltato ad occhi chiusi, senza bisogno
di parlare.
Angelopoulos girò altri film dopo
Lo sguardo di Ulisse e morì dopo
essere stato investito da una moto mentre girava un film rimasto incompiuto L’altro mare, con un altro magnifico
attore italiano, Toni Servillo. Nel 2018, durante gli incendi tragici, anche la
cittadina di Mati venne colpita e la casa di famiglia del regista fu
interamente distrutta dalle fiamme. Dello studio dove erano conservati libri,
manoscritti, sceneggiature, scambi epistolari, non è rimasto nulla. Non ci sono
parallelismi o insegnamenti morali da trarre, solo una concatenazione di eventi.
Il passato è una continua
rielaborazione della memoria e delle evocazioni.
Il futuro non è scritto, è l’unica
strada che resta quando abbiamo deciso di non prendere le altre.
Oggi il futuro ha il colore delle
foglie nuove sui rami, della neve che scende inaspettata, del congedo dall’inverno
e da questo tempo malato.
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