Vado a memoria, la memoria è il tempo che ha fatto il nido
nella nostra mente. È il mondo che è diventato noi e che costruisce il senso di
tutto il nostro affannarsi. Siamo come rondini che ritornano ogni anno nel
luogo dove sono nate e che aggiustano i resti del nido precedente che il vento
e la pioggia hanno sbriciolato. Terra, un rametto, saliva e poi un volo e il nido
che cresce intorno. Un’immagine isolata che riappare negli occhi mentre
facciamo altro, una vecchia polaroid che mi restituisce mio padre nello
splendore dei suoi sessanta anni, allegro e simpatico proprio come è stato. Questo
il primo ramo del mio nuovo nido, raccolgo una foglia dell’anno passato che ho
conservato in un libro, apro il Meridiano di Bertolucci e papaveri della primavera
in cui lui morì si ergono come un tetto rosso e fragile sulla mia costruzione. Una
vecchia fotografia in bianco e nero, il giorno del mio primo compleanno, sono
in piedi nel lettino, rido e guardo verso mia madre che non è inquadrata. A vent’anni
sorrido sorniona con indosso un abito messicano color avorio e cerco di
condurre a me chi mi stava fotografando. Nella foto accanto siamo in Norvegia e
la fotografia mi tiene imprigionata mentre spazzolavo i miei lunghi capelli. Indossavo
un vestito indiano rosso porpora con ricami dorati. Erano anni così quelli,
dove tutto ciò che era etnico mi catturava. Poi c’è una foto scattata da mio
padre, venti anni dopo e lì sto leggendo con un quaderno aperto accanto; dopo
essere fuggita verso i fiordi norvegesi a vent’anni, a quaranta sono tornata a
fare le vacanze con i miei genitori sulla costa marchigiana. Lì ho capito che
per poter ritornare bisogna allontanarsi. Tutto quel che resta di quelle estati
lontane sono queste fotografie, i fiori essiccati e la memoria che accoglie e protegge
quei frammenti di luce.
Dal mio nido di rondine infreddolita osservo quel che resta
del giorno e mi chiedo dove siano finiti tutti, quanta paura stia appesantendo
i cuori, quanta memoria che andrà sprecata, perché sopportare il dolore è difficile,
portarne il peso quasi impossibile. Cosa sono gli anni scriveva Marianne Moore
e Antonella Anedda ha usato questo frammento di verso per uno dei suoi libri
più belli. Mi chiedo se so rispondere a questa domanda oziosa, posso costruirci
sopra una nuova poesia, continuare a divagare come sto facendo. Stare in silenzio
è l’ultima opzione, ma non posso, perché il silenzio ha bisogno di un nido di
parole dove potersi riposare.
Ripongo le vecchie fotografie, gironzolo ancora un po’ per
casa, che è come camminare per Parigi di sera con la musica giusta e gli occhi socchiusi.
O anche a New York a guardare Manhattan in una cineteca a Manhattan sul retro
del Plaza Hotel. I film di Allen mi hanno spesso fatto compagnia e adoro tutti
i finali.
Nelle ultime scene di Manhattan il protagonista snocciola la sua lista
delle cose per cui vale la pena vivere “io direi... il vecchio Groucho Marx per
dirne una e... Joe DiMaggio e... secondo movimento della sinfonia Jupiter e...
Louis Armstrong, l'incisione di Potato Head Blues e... i film svedesi
naturalmente... L'educazione sentimentale di Flaubert... Marlon Brando, Frank
Sinatra... quelle incredibili... mele e pere dipinte da Cézanne... i granchi da
Sam Wo... il viso di Tracy...”.
Inizio a scrivere la mia lista delle cose per
cui vale la pena vivere e in cima metto quelle vecchie fotografie. Terra, un rametto,
una foglia, il nido intorno cresce.
Mi siedo a un tavolo che non ho mai toccato, dove una donna
matura sta scrivendo il libro della sua vita. Ha affittato un appartamento per
poter lavorare in pace, un giorno scopre che quello accanto ospita uno studio
di psicoanalista e una giovane donna racconta la sua vita in crisi e obbliga l’altra
donna a fare i conti con se stessa, con le relazioni importanti, con il passato
costellato di abbandoni, rotture e rinunce su cui si interroga sino a chiedersi
se “il passato è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto”. Le resto accanto,
la capisco, ora so che entrambe le cose sono vere, che non devo scegliere, che
posso tenere nel nido che sto costruendo immagini di un mare perduto, il fumo
di una sigaretta che sale verso le stelle, una nuova poesia letta al telefono,
tutte le strade che ho percorso, tutti i ritorni che mi sono concessa, anche io
sono placata nella dolcezza dei ricordi e so che su questi ricordi, sugli amori
e gli affetti, sui desideri e sulle passioni, poggiano le fondamenta di chi
sono ora, di chi diventerò, della forza con cui la vita ci ha chiamato a
fronteggiare qualcosa di cui avevamo solo racconti, storie e vecchie
fotografie.
Questa forza fragile che accompagna ogni gesto serale,
questo desiderio di vita che resta in noi sino alle più tarda età. L’ho visto
nelle mani dei miei genitori che piantavano arbusti e semi. Gli alberi e i
cespugli sono sopravvissuti alla loro vita e ancora mi dicono di quell'amore
che hanno provato. Un giorno sull'autobus ho visto un vecchio chiudere gli
occhi quando il sole è apparso all'improvviso da uno squarcio nelle nuvole. Con
gli occhi sempre chiusi lui ha sorriso e l’anima-gatto che teneva chiusa nel
petto si è acciambellata sulle sue ginocchia.
Nel saggio L’enigma,
tratto dalla raccolta L’estate,
Albert Camus scriveva “Fiotti di sole caduti dal sommo del cielo rimbalzano
brutalmente sulla campagna intorno a noi. Tutto tace davanti a questo tumulto e
il Lubéron, laggiù, è soltanto un enorme blocco di silenzio che io ascolto
senza tregua. Tendo l'orecchio, di lontano corrono verso di me, mi chiamano
invisibili amici, la mia gioia aumenta, la stessa di molti anni fa. Un felice
enigma mi aiuta di nuovo a capire tutto. Dove sta l'assurdità del mondo? È
questo splendore o il ricordo della sua assenza?”.
Sono vere entrambe le cose, lo splendore e il ricordo della
sua assenza.
Tutto resto scritto nel libro del mondo, tutto resta scritto
nel libro della vostra immaginazione.
E vagheremo da un mondo all'altro, da un sogno a un ricordo,
da un desiderio a un affanno.
È questa la nostra immortalità. È questa la nostra eternità.
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