Milano è fredda, livida, invernale come non lo è stata mai in
questo inverno che si avvia alla sua fine. Traffico scarso, i commessi nei
negozi indossano la mascherina, ingressi contingentati nei supermercati,
barriere di contenitori nelle farmacie per far tenere ai clienti la distanza di
sicurezza.
In queste giornate inaspettate, nei colori che mutano dal
rosso all'arancione - meno pericoloso? -bisogna reinventarsi la quotidianità. Non
penso a questi giorni come a una quarantena ma come a una clausura. La prima
porta in sé il sospetto della malattia incombente, la clausura, invece, è un
allontanamento volontario dalla mondanità, dal mondo e dalle sue tentazioni per
dedicarsi ad altro. Lo so che è una forzatura, ma la mente inventa stratagemmi
per rendere sopportabile questo tempo lento e inquietante. C’è un’immagine che
porto in me e che mi rasserena, quella dell'hortus
conclusus, in particolare quello di
Orta San Giulio, uno dei miei luoghi dell’anima. Lo stemma del comune lacustre
è visibile nel giardino del palazzo comunale dove c’è una vecchia panchina di
pietra che tante volte ha ospitato le mie riflessioni e fantasticherie
giovanili. Lì posso ritornare con la mente e trovare quella serenità
accompagnata dallo sciabordio leggero delle onde, così diverso da quello del
mare. L’isola si erge nel centro del lago, gli antichi palazzi stanno intorno
alle rive per renderle ancora più belle. La mia indole solitaria lì a Orta, si
esprimeva anche con lunghe passeggiate e poi la scrittura, seduta davanti al
camino acceso. Da bambina, quando avevo appreso dell’esistenza dei monasteri
medioevali, avevo deciso che sarei entrata in un monastero, la vita più bella
del mondo. La maestra Francesca, allarmata, aveva mandato a chiamare i miei
genitori per accertarsi se la mia fosse una vocazione precoce e genuina o in famiglia
qualcuno mi stesse incoraggiando a intraprendere una strada così particolare e
fuori moda negli anni Settanta. Mia madre rimase a bocca aperta e quindi venni
interpellata in prima persona. Perché volevo diventare suora? Io avevo bene in
mente che alle suore veniva richiesta una vita diversa rispetto a quella dei
monaci. Infatti, io volevo diventare un monaco amanuense per stare ogni giorno
in mezzo ai libri, per copiarli e per scriverli, mica una suora. Famiglia e
maestra si tranquillizzarono e io ebbi il mio piccolo banco di legno, costruito
da un falegname, che feci mettere da mio padre nell'angolo sotto la finestra,
proprio tra la poltrona e il mio letto. Da lì vedevo i tetti, le nuvole, le
cime dei pioppi e le rondini sfrecciare nel cielo. Quell'angolo di casa è stato
il mio primo hortus conclusus cui ne sono seguiti altri, ma
ne scriverò un altro giorno. Il mio hortus
conclusus attuale è il tavolo della cucina. Da una parte ci stanno il
materiale di lavoro, il quaderno, il computer, da un’altra il manoscritto del nuovo
romanzo, gli appunti, il quaderno delle poesie, i libri che sto leggendo. Mi siedo
da un lato o dall'altro del tavolo, che è molto ampio, a seconda di quel che
sto facendo. Per la maggior parte della giornata dal lato del lavoro, ma una
volta finito il lavoro che mi dà da mangiare, come si diceva una volta, mi
sposto dall'altro e mi immergo nel mio libri e nei libri che leggo. Poi, nel
terzo di tavolo della cucina deputato a fare il suo usuale lavoro, apparecchio,
cucino due volte al giorno, cerco di variare i piatti, sperimento nuove
ricette. La semplicità della vita quotidiana è una consolazione in questi
giorni senza, senza le persone amate, senza la città da attraversare, senza i
viaggi da progettare, senza è la prima parola chiave dell’anno senza Carnevale.
Ma sono fiorite le forsythie nei prati vicino casa e gli alberi scoppiano di
gemme. Non fermeremo il tempo, non recupereremo ciò che è andato perduto, ma la
bellezza è dentro e fuori di noi e la primavera sta ritornando.
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