Crescita, innovazione, cambiamento, progresso: non siamo
proprio capaci di stare fermi noi occidentali. Lungi da me l’idea di provare a
fare speculazioni filosofiche, non ne possiedo gli strumenti, ma questo nostro
essere sempre spinti in avanti in nome del cambiamento e del progresso è uno
dei movimenti mitici che fondano la nostra civiltà. Il nuovo di oggi sarà già
vecchio domani in nome del progresso e del cambiamento. Una corsa senza fine
che ci estenua e ci porta a vivere il tempo in funzione della velocità, altra
parola imprescindibile per i tempi moderni, del successo, della competizione. La
politica ha perso da tempo la capacità fondamentale di originare parole dense
di significato e si è accodata nella scia sfolgorante del capitalismo che
trionfa. E ha trionfato al punto di inglobare anche le società comuniste cinese
e russa. In un saggio molto interessante e mai tradotto, Democracy and Capitalism di Samuel Bowles e Herbert Gintis, che ho
letto tanti anni fa per il corso di Scienza Politica, alla fine della lettura sono arrivata
alla convinzione che il capitalismo fosse in grado di cucirsi addosso qualunque
forma di produzione sino ad arrivare a quella più estrema del nazismo che usava
gli esseri umani come pezzi di una macchina e che potevano essere buttati, anziché
riparati, perché il serbatoio degli schiavi era pressoché illimitato. Gli ultimi
decenni del Novecento e i primi due del secolo in corso, ci hanno dimostrato
che la variabile indipendente è l’economia e non la politica. Un’ulteriore
variabile interveniente è rappresentata dalla tecnologia che ha contribuito a
sostenere il mito della velocità e ha ulteriormente messo in posizione servile
la politica.
Gli articoli di giornale, le interviste, le testimonianze,
le fotografie, i video, i post su Facebook raccontano storie che si
assomigliano, sia per chi è tenuto a stare chiuso in casa, sia per chi è
costretto a uscire per andare al lavoro e garantire a tutti i servizi
essenziali, come essere curati e nutriti. Chi è costretto a lavorare in
ospedale non ha più una vita privata e rischia il contagio e la morte ogni
giorno. Chi lavora nei pochi negozi e nei supermercati ancora aperti, guarda
ormai ai clienti come possibili untori e ho visto anche la più gentile delle
commesse del supermercato dove vado più spesso, trasformarsi in un cerbero.
La dialettica tra dentro e fuori, tra salute e malattia, tra
solitudine e socialità si scontra ogni giorno con la paura, con il dolore, con
l’ansia e l’angoscia. Così come il passato e il futuro esondano e sommergono il
senso di questo presente implacabile e inimmaginabile.
Soprattutto ci costringe a fare i conti con chi siamo stati,
chi siamo e chi saremo o vorremmo essere. Ci costringe a guardare davvero in
faccia le persone con cui dividiamo lo spazio della casa e la fisicità della
vita, la sua dolorosa essenza, credo ci stia rendendo consapevoli che la vita è
qui e adesso, che dobbiamo ricollocarci in questo tempo diverso e lento, che
possiamo diventare esploratori del mondo pur stando chiusi tra quattro mura,
anche se stiamo rimpiangendo la vita di prima, quella dove non c’era bisogno di
farsi domande, perché le risposte erano già tutte pronte e confezionate da altri.
In questo ritorno ai termini essenziali della vita la poesia,
la parola poetica, possono essere un sostegno e una fonte d’ispirazione, per scendere
nella profondità del nostro essere, per molare una pietra che non conosciamo e
farla risplendere, per aggiustare quel qualcosa che la vita di prima aveva già
spezzato in noi, per dare un nuovo senso al risveglio di ogni mattina, per non
avere timore se la notte non riusciamo a dormire.
Non siamo soli in questo frangente della storia, la
solidarietà, la comprensione, il rispetto per il mistero che ognuno di noi è, l’amore
anche per i lontani, per i sofferenti, il lutto per chi ci sta lasciando in
solitudine e senza un saluto, sono sentimenti che ciascuno di noi prova.
Leggo decine di poesie ispirate dalla peste del XXI secolo
che esprimono le emozioni di chi scrive, ne apprezzo la spontaneità, gli
intenti, il pathos, il valore terapeutico, perché le parole possono essere
curative. Ma alla maggior parte di esse manca quell'equilibrio tra immagini,
metafore, similitudini, parole, ritmo, forma. Se anche non siete lettori
abituali di poesia quando leggerete una poesia che è frutto di questo
equilibrio la riconoscerete d’istinto.
Oggi ho scelto una poesia di Velimir Chlebnikov, poeta russo
poco noto in Italia, tradotta dallo scrittore, traduttore e molto altro Paolo
Nori e pubblicata da Quodilibet nel 2009 nella raccolta intitolata 47 poesie facili e una difficile:
Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.
Il mondo materiale è essenziale e scarno in questi
giorni, le nuvole e il cielo li possiamo guardare anche da una piccola finestra,
li possiamo guardare con gli occhi della memoria, nel nostro teatro interiore,
nei sogni. Ci sono, sono lì al loro posto, ci accompagnano, ci consolano, ci
nutrono e ci esortano anche se possono parlare solo grazie ai poeti e alle voci
umane.
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