giovedì 19 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/11: le parole che fondano il mito


Crescita, innovazione, cambiamento, progresso: non siamo proprio capaci di stare fermi noi occidentali. Lungi da me l’idea di provare a fare speculazioni filosofiche, non ne possiedo gli strumenti, ma questo nostro essere sempre spinti in avanti in nome del cambiamento e del progresso è uno dei movimenti mitici che fondano la nostra civiltà. Il nuovo di oggi sarà già vecchio domani in nome del progresso e del cambiamento. Una corsa senza fine che ci estenua e ci porta a vivere il tempo in funzione della velocità, altra parola imprescindibile per i tempi moderni, del successo, della competizione. La politica ha perso da tempo la capacità fondamentale di originare parole dense di significato e si è accodata nella scia sfolgorante del capitalismo che trionfa. E ha trionfato al punto di inglobare anche le società comuniste cinese e russa. In un saggio molto interessante e mai tradotto, Democracy and Capitalism di Samuel Bowles e Herbert Gintis, che ho letto tanti anni fa per il corso di Scienza Politica, alla fine della lettura sono arrivata alla convinzione che il capitalismo fosse in grado di cucirsi addosso qualunque forma di produzione sino ad arrivare a quella più estrema del nazismo che usava gli esseri umani come pezzi di una macchina e che potevano essere buttati, anziché riparati, perché il serbatoio degli schiavi era pressoché illimitato. Gli ultimi decenni del Novecento e i primi due del secolo in corso, ci hanno dimostrato che la variabile indipendente è l’economia e non la politica. Un’ulteriore variabile interveniente è rappresentata dalla tecnologia che ha contribuito a sostenere il mito della velocità e ha ulteriormente messo in posizione servile la politica.
Gli articoli di giornale, le interviste, le testimonianze, le fotografie, i video, i post su Facebook raccontano storie che si assomigliano, sia per chi è tenuto a stare chiuso in casa, sia per chi è costretto a uscire per andare al lavoro e garantire a tutti i servizi essenziali, come essere curati e nutriti. Chi è costretto a lavorare in ospedale non ha più una vita privata e rischia il contagio e la morte ogni giorno. Chi lavora nei pochi negozi e nei supermercati ancora aperti, guarda ormai ai clienti come possibili untori e ho visto anche la più gentile delle commesse del supermercato dove vado più spesso, trasformarsi in un cerbero.
La dialettica tra dentro e fuori, tra salute e malattia, tra solitudine e socialità si scontra ogni giorno con la paura, con il dolore, con l’ansia e l’angoscia. Così come il passato e il futuro esondano e sommergono il senso di questo presente implacabile e inimmaginabile.
Soprattutto ci costringe a fare i conti con chi siamo stati, chi siamo e chi saremo o vorremmo essere. Ci costringe a guardare davvero in faccia le persone con cui dividiamo lo spazio della casa e la fisicità della vita, la sua dolorosa essenza, credo ci stia rendendo consapevoli che la vita è qui e adesso, che dobbiamo ricollocarci in questo tempo diverso e lento, che possiamo diventare esploratori del mondo pur stando chiusi tra quattro mura, anche se stiamo rimpiangendo la vita di prima, quella dove non c’era bisogno di farsi domande, perché le risposte erano già tutte pronte e confezionate da altri.
In questo ritorno ai termini essenziali della vita la poesia, la parola poetica, possono essere un sostegno e una fonte d’ispirazione, per scendere nella profondità del nostro essere, per molare una pietra che non conosciamo e farla risplendere, per aggiustare quel qualcosa che la vita di prima aveva già spezzato in noi, per dare un nuovo senso al risveglio di ogni mattina, per non avere timore se la notte non riusciamo a dormire.
Non siamo soli in questo frangente della storia, la solidarietà, la comprensione, il rispetto per il mistero che ognuno di noi è, l’amore anche per i lontani, per i sofferenti, il lutto per chi ci sta lasciando in solitudine e senza un saluto, sono sentimenti che ciascuno di noi prova.
Leggo decine di poesie ispirate dalla peste del XXI secolo che esprimono le emozioni di chi scrive, ne apprezzo la spontaneità, gli intenti, il pathos, il valore terapeutico, perché le parole possono essere curative. Ma alla maggior parte di esse manca quell'equilibrio tra immagini, metafore, similitudini, parole, ritmo, forma. Se anche non siete lettori abituali di poesia quando leggerete una poesia che è frutto di questo equilibrio la riconoscerete d’istinto.

Oggi ho scelto una poesia di Velimir Chlebnikov, poeta russo poco noto in Italia, tradotta dallo scrittore, traduttore e molto altro Paolo Nori e pubblicata da Quodilibet nel 2009 nella raccolta intitolata 47 poesie facili e una difficile:

Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.

Il mondo materiale è essenziale e scarno in questi giorni, le nuvole e il cielo li possiamo guardare anche da una piccola finestra, li possiamo guardare con gli occhi della memoria, nel nostro teatro interiore, nei sogni. Ci sono, sono lì al loro posto, ci accompagnano, ci consolano, ci nutrono e ci esortano anche se possono parlare solo grazie ai poeti e alle voci umane.


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