Dal mio angolo di mondo osservo e ascolto le due strade
alberate che si intersecano, gli alberi ancora spogli ma con le gemme che
stanno esplodendo, i cespugli fioriti, i pochi uccellini che canticchiano, i
parcheggi vuoti come accade solo in agosto, la biblioteca di quartiere che
sorge sulle rovine della fabbrica De Angeli – Frua distrutta nei bombardamenti
del 1942-1943 e che ora dà il nome al quartiere che era un tempo il borgo della
Maddalena. Nome che riviene dalla colonna votiva dedicata a Santa Maddalena e
fatta erigere da San Carlo Borromeo nel 1576 dopo una terribile epidemia di
peste nera. Come tanti di noi vivo in un luogo ricco di storia e di storie, a
volte mi immagino il fiume Olona che è stato sotterrato, gli operai che
entravano in fabbrica, il suono delle sirene, i bombardieri della RAF, gli
scampati alla peste che vanno a rendere grazie alla Maddalena. La mia
generazione, quella dei baby-boomer, e quelle successive sono vissute sino a
questo duro e gelido 2020, al riparo della storia. Le generazioni più fortunate
di ogni epoca, siamo nati e cresciuti in tempo di pace, abbiamo potuto
studiare, viaggiare e, fino agli anni Novanta, trovare senza problemi un lavoro
consono agli studi, alle ambizioni e ai desideri. Forse perché la lunga pace
occidentale ha fatto da paravento alla Storia che intorno a noi continuava a
colpire alla cieca, a decimare vittime, anche a poche decine di chilometri dal
confine italiano. Chi ricorda Sarajevo e Srebenica durante la guerra dei
Balcani degli anni Novanta del Novecento? Ora pare che la Storia abbia
raggiunto anche noi, i nostri lamenti, il nostro sgomento, il nostro dolo si
accodano a quelli delle generazioni che ci hanno preceduto. Ho ascoltato
racconti della Seconda Guerra Mondiale fatti dalle mie nonne e dal nonno
materno; dai genitori di alcuni amici che avevano combattuto, altri racconti di
chi si era nascosto per sopravvivere e di chi aveva disertato dopo l’8
settembre ed era fuggito.
Ogni qual volta leggo notizie sull’epidemia, i
racconti fatti in presa diretta, la cronaca che si fa storia senza soluzione di
continuità mi chiedo cosa resterà di questi giorni. Dal mio hortus conclusus vengo scaraventata
contro il muro della realtà dal bollettino quotidiano della Protezione Civile e
mi sembra che tutto il mondo esploda in un enorme e cupo fuoco d’artificio blu
e bianco che non rallegra gli animi. Anche le parole se ne stanno quiete nei
loro nidi, nelle loro ceste in giornate come questa, non hanno voglia di uscire
e lo mostrano con la loro assenza.
Si muovono in me immagini di episodi cui non ho assistito. Sull’angolo
della mia strada ci fu un combattimento violento tra partigiani e repubblichini
in fuga. Erano tutti ragazzi e i due che avevano scelto il lato sbagliato della
storia, il lato terribile e mortifero del fascismo, perirono perché non si
accorsero del drappello di partigiani che arrivava da Piazza Sicilia. Sento il
rombo dei bombardieri e il sibilo delle bombe incendiarie che colpiscono gli
obiettivi industriali e qualche casa. Le storie che conosco del mio quartiere
me le hanno raccontate soprattutto due vecchi amici che non ci sono più e che
meritano un racconto tutto per loro e anche persone anziane che c’erano durante
la Seconda Guerra Mondiale e che ora sono nella fascia d’età a rischio a causa
della pandemia.
Tutto quello che posso fare, insieme a voi, a stare in casa,
lavorare e aspettare, tessere il tempo e sperare.
Oggi chiudo con una poesia di Antonella Anedda dalla
raccolta Notti di pace occidentale
pubblicata da Donzelli nel 1999.
IX
a
Zbigniew Herbert
È vero, l’allarme si alza dalle stelle
l’argento non ha luce sul barbaro grido di terrore.
L’imperatore ha spento il lume
ha chiuso il libro.
In basso la terra scuote l’orlo dei vasi e il ferro brucia
freddo sui fili. Lui dorme nel quadrato dei secoli
alti nel vento come aeree gabbie.
Non sente il bronzo del trono sulla nuca
né il rintocco dei chiodi sulle porte.
Dormirà per sempre.
Perciò sospendi tu la quiete
prova a rovesciare il dorso della mano
a raggiungermi nel nome di una lingua sconosciuta
perché parlo da un’isola
il cui latino ha tristezza di scimmia.
Un mare una pianura nuvole di tempesta contro i fiumi
uccelli nel cui becco gli steli annunciano alfabeti.
Forse solo così – Zbigniew
può viaggiare il cesto dei libri sulle acque
così credo giunga la voce
la stretta del viso nell'orrore
fino a un’orma fenicia, a un basso scudo
privo – come il tuo – di luce.
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