Avevo un melograno nel giardino di mia nonna, certo era mio
solo un mese all'anno, ma quando d’inverno arrivava il pacco natalizio, insieme
a salsicce, soppressate, olive schiacciate, melanzane sott'olio, peperoni e
pomodori seccati al sole dell’estate ormai finita, arrivava sempre qualche
frutto quasi maturo che avremmo tenuto sul tavolo per qualche tempo e poi sgranato
per sentire in bocca quel gusto aspro e dolce allo stesso tempo. I fiori rossi
che avevano preceduto ogni frutto li potevo solo immaginare quando mio padre mi
raccontava della sua infanzia contadina. Li immaginavo rigogliosi e dello
stesso color rubino dei frutti. Poi con gli anni imparai a riconoscere questo
frutto molto particolare nelle decorazioni su tessuti e arazzi rinascimentali,
in alcuni stemmi, nei quadri e lessi il mito di Kore e Demetra, un mito che mi
parlava nel profondo del legame madre/figlia e mi faceva intuire lo strappo
necessario dalle braccia della madre per diventare una donna adulta.
Nel giardino di mia nonna c’erano altri alberi da frutto, un
pesco, un susino, un albicocco. Nell'orto confinante lei coltivava pomodori,
melanzane, peperoni, basilico, zucchine e l’odore del suo corpo e l’odore dell’orto
era un tutt'uno. Nei campi dietro la casa coltivavano grano e tabacco che
crescevano intorno a ulivi contorti e centenari e in fondo, nella strada che
portava al fiume, la grande quercia di cui ho già scritto. La casa era
circondata da enormi oleandri rosa e bianchi, e un pergolato di uva americana
ombreggiava le sedute dove ci si fermava a lungo la sera a chiacchierare,
accompagnati dal rumore lieve dell'acquaro,
un ruscello che arrivava dalla montagna di Occhi di lupo, giù fino a valle, per
irrigare i campi, dissetare gli animali e fornire l’acqua per le faccende
domestiche. Quante ore ho trascorso anch'io, come le donne adulte della
famiglia a strofinare i panni sulla pietra e a sciacquarli nell'acqua corrente.
Il profumo del sapone di Marsiglia mi riempie ancora le narici e il suono
ritmato dei panni strizzati e sbattuti su un’altra pietra è, insieme al frinire
delle cicale, la colonna sonora di quei giorni del secolo scorso. Con me c’era sempre mia cugina Mariuccia che è la complice di ogni estate e di ogni bel ricordo che ho di quegli anni.
Quell'atmosfera di confine tra mondo cittadino e mondo
contadino l’ho respirata di nuovo negli anni in cui andavo a Soliva nella casa
solitaria della mia amica Fausta. Un bosco di castagni circondava la casa e la
notte intorno era nera più che mai. Ci si arrivava da un sentiero in discesa
nascosto alla vista di chi non conosceva il luogo. Di solito arrivavamo in tre
o quattro, a volte c’erano altre due amiche Titti e Riri, a volte Vittorio, il
compagno di Fausta. Partivamo sempre con scorte di cibo e buon vino che non
riuscivamo mai a finire, così nel tempo si era creata una piccola e selezionata
cantina e le vivande avanzate venivano spartite e duravano spesso anche per un
paio di giorni della settimana successiva. Anche nel giardino selvaggio di Fausta
c’erano alberi da frutto che erano stati piantati negli anni Venti dall'antico
proprietario. La storia della casa, come mi è stata raccontata, come me la
ricordo, è molto bella e merita da sola un racconto che magari scriverò nei
prossimi giorni. Quando Fausta aveva preso la casa, aveva piantato un roseto
rampicante di rose rosa, chissà qual era il loro nome, che era poi cresciuto rigoglioso
per oltre trent'anni, sino a raggiungere il secondo piano. Ho appesa in casa
una foto che scattai io stessa e che ne rende tutto lo splendore. Il roseto
morì quando lei smise di frequentare la casa a causa di molteplici motivi, e ho
sempre pensato che è proprio vero che le altre creature animali e vegetali,
vivono anche del nostro amore e della nostra cura. Anche in quel giardino a
terrazze potevo appartarmi come facevo da mia nonna e fantasticare, immaginare,
lasciar correre i pensieri, leggere, prendere appunti per storie che avrei
scritto, come la storia del vampiro del piano di sopra che mi ero inventata un
giorno d’autunno e poi avevo raccontato alle mie amiche in una sera sedute
davanti al camino in cucina ed era successo che poi davvero il vampiro si era
manifestato. Ma anche questa è un’altra storia che scriverò, che forse ho già
scritto. Anche in questo giardino un antico melograno splendeva tra gli altri
alberi e io tenevo sotto la lingua un frammento di tempo e di terra che mi
riportava alla mia amata Calabria. In tempi più recenti ho frequentato un
giardino dove il melograno era sovrano indiscusso, nonostante una palma enorme,
un pesco, un albicocco e un fico con una chioma così imponente da ombreggiare
un terzo di tutto il terreno. Tra l’ombra del melograno e dell’ibisco, del
melograno e della palma, dell’oleandro e degli abeti, ho trascorso ore piene di
vita e di senso. Nel giardino confinante c’era un altissimo pioppo le cui
fronde mosse dal vento avevano lo stesso suono di quelle della grande quercia. I
pomodori nell'orto, il profumo del sole, dell’erba bruciata, della terra secca
che innaffiavo la sera, tutto mi riportava a quell'infanzia e a quella
giovinezza che erano una festa dei sensi. Alla gioia di quegli alberi si unì
poi la gioia dei gatti e dei cani che scorazzavano liberi. Una gattina soprattutto,
mi viveva in braccio quando stavo sulla sdraio a scrivere l’ultima parte delle
poesie che sono confluite nella raccolta Un’estate
invincibile. Lei e il melograno sono stati i sovrani dell’estate scorsa, l’ultima
estate del mondo vecchio e ancora non sapremo come sarà quello che ora sta
nascendo da quarantene e clausure.
Il melograno canta ancora con la sua voce potente
accompagnato dal vento, la sua melodia solo io la potevo sentire. Ma forse
leggendo queste mie parole anche voi la sentirete, e sentirete il pioppo e la
quercia, gli oleandri e gli albicocchi, le cicale, l’acqua che scorre come il
tempo, come la memoria, come la nostalgia.
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