domenica 15 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/7: il canto del melograno


Avevo un melograno nel giardino di mia nonna, certo era mio solo un mese all'anno, ma quando d’inverno arrivava il pacco natalizio, insieme a salsicce, soppressate, olive schiacciate, melanzane sott'olio, peperoni e pomodori seccati al sole dell’estate ormai finita, arrivava sempre qualche frutto quasi maturo che avremmo tenuto sul tavolo per qualche tempo e poi sgranato per sentire in bocca quel gusto aspro e dolce allo stesso tempo. I fiori rossi che avevano preceduto ogni frutto li potevo solo immaginare quando mio padre mi raccontava della sua infanzia contadina. Li immaginavo rigogliosi e dello stesso color rubino dei frutti. Poi con gli anni imparai a riconoscere questo frutto molto particolare nelle decorazioni su tessuti e arazzi rinascimentali, in alcuni stemmi, nei quadri e lessi il mito di Kore e Demetra, un mito che mi parlava nel profondo del legame madre/figlia e mi faceva intuire lo strappo necessario dalle braccia della madre per diventare una donna adulta.
Nel giardino di mia nonna c’erano altri alberi da frutto, un pesco, un susino, un albicocco. Nell'orto confinante lei coltivava pomodori, melanzane, peperoni, basilico, zucchine e l’odore del suo corpo e l’odore dell’orto era un tutt'uno. Nei campi dietro la casa coltivavano grano e tabacco che crescevano intorno a ulivi contorti e centenari e in fondo, nella strada che portava al fiume, la grande quercia di cui ho già scritto. La casa era circondata da enormi oleandri rosa e bianchi, e un pergolato di uva americana ombreggiava le sedute dove ci si fermava a lungo la sera a chiacchierare, accompagnati dal rumore lieve dell'acquaro, un ruscello che arrivava dalla montagna di Occhi di lupo, giù fino a valle, per irrigare i campi, dissetare gli animali e fornire l’acqua per le faccende domestiche. Quante ore ho trascorso anch'io, come le donne adulte della famiglia a strofinare i panni sulla pietra e a sciacquarli nell'acqua corrente. Il profumo del sapone di Marsiglia mi riempie ancora le narici e il suono ritmato dei panni strizzati e sbattuti su un’altra pietra è, insieme al frinire delle cicale, la colonna sonora di quei giorni del secolo scorso. Con me c’era sempre mia cugina Mariuccia che è la complice di ogni estate e di ogni bel ricordo che ho di quegli anni.
Quell'atmosfera di confine tra mondo cittadino e mondo contadino l’ho respirata di nuovo negli anni in cui andavo a Soliva nella casa solitaria della mia amica Fausta. Un bosco di castagni circondava la casa e la notte intorno era nera più che mai. Ci si arrivava da un sentiero in discesa nascosto alla vista di chi non conosceva il luogo. Di solito arrivavamo in tre o quattro, a volte c’erano altre due amiche Titti e Riri, a volte Vittorio, il compagno di Fausta. Partivamo sempre con scorte di cibo e buon vino che non riuscivamo mai a finire, così nel tempo si era creata una piccola e selezionata cantina e le vivande avanzate venivano spartite e duravano spesso anche per un paio di giorni della settimana successiva. Anche nel giardino selvaggio di Fausta c’erano alberi da frutto che erano stati piantati negli anni Venti dall'antico proprietario. La storia della casa, come mi è stata raccontata, come me la ricordo, è molto bella e merita da sola un racconto che magari scriverò nei prossimi giorni. Quando Fausta aveva preso la casa, aveva piantato un roseto rampicante di rose rosa, chissà qual era il loro nome, che era poi cresciuto rigoglioso per oltre trent'anni, sino a raggiungere il secondo piano. Ho appesa in casa una foto che scattai io stessa e che ne rende tutto lo splendore. Il roseto morì quando lei smise di frequentare la casa a causa di molteplici motivi, e ho sempre pensato che è proprio vero che le altre creature animali e vegetali, vivono anche del nostro amore e della nostra cura. Anche in quel giardino a terrazze potevo appartarmi come facevo da mia nonna e fantasticare, immaginare, lasciar correre i pensieri, leggere, prendere appunti per storie che avrei scritto, come la storia del vampiro del piano di sopra che mi ero inventata un giorno d’autunno e poi avevo raccontato alle mie amiche in una sera sedute davanti al camino in cucina ed era successo che poi davvero il vampiro si era manifestato. Ma anche questa è un’altra storia che scriverò, che forse ho già scritto. Anche in questo giardino un antico melograno splendeva tra gli altri alberi e io tenevo sotto la lingua un frammento di tempo e di terra che mi riportava alla mia amata Calabria. In tempi più recenti ho frequentato un giardino dove il melograno era sovrano indiscusso, nonostante una palma enorme, un pesco, un albicocco e un fico con una chioma così imponente da ombreggiare un terzo di tutto il terreno. Tra l’ombra del melograno e dell’ibisco, del melograno e della palma, dell’oleandro e degli abeti, ho trascorso ore piene di vita e di senso. Nel giardino confinante c’era un altissimo pioppo le cui fronde mosse dal vento avevano lo stesso suono di quelle della grande quercia. I pomodori nell'orto, il profumo del sole, dell’erba bruciata, della terra secca che innaffiavo la sera, tutto mi riportava a quell'infanzia e a quella giovinezza che erano una festa dei sensi. Alla gioia di quegli alberi si unì poi la gioia dei gatti e dei cani che scorazzavano liberi. Una gattina soprattutto, mi viveva in braccio quando stavo sulla sdraio a scrivere l’ultima parte delle poesie che sono confluite nella raccolta Un’estate invincibile. Lei e il melograno sono stati i sovrani dell’estate scorsa, l’ultima estate del mondo vecchio e ancora non sapremo come sarà quello che ora sta nascendo da quarantene e clausure.
Il melograno canta ancora con la sua voce potente accompagnato dal vento, la sua melodia solo io la potevo sentire. Ma forse leggendo queste mie parole anche voi la sentirete, e sentirete il pioppo e la quercia, gli oleandri e gli albicocchi, le cicale, l’acqua che scorre come il tempo, come la memoria, come la nostalgia.

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