mercoledì 25 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/17: convocare la notte, scrivere il buio


Questa è l’ora incerta che tra il giorno e la notte sta, quella in cui la luce tremolante del giorno si abbandona alle mani salde dell’oscurità e poi scompare. Qualche anno fa avevo preso l’abitudine di ascoltare The Köln Concert di Keit Jarrett sul confine dell’imbrunire e lo faccio anche oggi e guardo il mondo, non quello sotto i miei occhi, non quello di oggi e non quello di allora, ma un mondo immaginato o vissuto in un tempo ancor più lontano. Richiamo nel teatro della memoria i monaci dell’Abbazia cistercense di Heiligenkreuz, consacrata nel 1133, in processione per recarsi nel coro a recitare i vespri, vedo il cielo nell’Abbazia di Jumièges, ancora più antica perché risale al 654, e sento risuonare anche lì canti che non ho mai udito. Dietro la casa di mia nonna paterna in Calabria, quando il sole scendeva e noi bambini dovevamo rientrare in casa per cena, staccavo una fogliolina di menta selvatica dai cespugli e andavo dietro il fienile per guardare i colori del tramonto e immaginare le vite degli altri che abitavano nelle case in collina di cui vedevo accendersi le luci.

Le luci che si accendono, ce ne sono altre. A un paio di chilometri dalla casa dei miei genitori dove sono cresciuta, intravedevo una fila di palazzi abbastanza alti da dare l’illusione di essere lo skyline di New York. Ogni finestra che si illuminava era un frammento di quel desiderio di essere altrove, di viaggiare, di scoprire l’America che ho coltivato per molti anni prima di poter far coincidere le mie immaginazioni con i grattacieli reali della città che non dorme mai, accompagnata dalla musica jazz che ascoltavo ossessivamente in quegli anni.

Dalla cima della Torre Nord, dalle finestre del ristorante Windows on the World e poi dalla terrazza ho visto il mondo dalla sua più alta vetta e lo stesso giorno ho visto le tanto agognate luci di Manhattan accendersi dalla cima dell’Empire State Building, proprio dove finisce il film con Meg Ryan e Tom Hanks Insonnia d’amore.

Ora che ho dato l’addio a questo giorno di una fredda primavera che ignora come stiamo noi, ora che ho convocato la notte, posso compiere il rito inverso e chiudere le persiane, chiudere tutto il mondo fuori da me. Apro e chiudo la mano destra per salutare l’albero che vive e respira ridosso alle mie finestre, vorrei che bastasse un gesto solitario a confondere il tessuto del buio con il tremolio della prima luce che ho acceso nello studio. Conosco a memoria le copertine dei libri che amo e che si offrono al mio sguardo laterale. Non ho bisogno di più luce per muovermi a piccoli passi come se non conoscessi tutti i sentieri che attraversano queste stanze e si tuffano in un altrove che neanche i muri possono fermare.

La notte è fatta di piccole ombre che si stringono le une alle altre e ci danno l’impressione di essere un unico corpo. Bisogna fermarsi e in silenzio aspettare che un chiarore misterioso si insinui e ci mostri la loro vera consistenza. Una si posa sulla mia mano ancora aperta. È come avere una farfalla che si è posata sul fiore della mia sera e si fida, sa che non cercherò di afferrarla. Una a una sfilano le piccole ombre e si mescolano con le finestre illuminate.

Dall'altro della stanza si apre all'improvviso uno scorcio della prima volta che ho visto le Dolomiti, del Sass Pordoi deserto e ancora ricoperto di neve, poi del Monte Bianco che non mi parlava, del rifugio nei Pirenei francesi chiuso da decenni e tutto le Cirque de Gavarnie che ci teneva nelle sue braccia di pietra e offriva gli alberi maestosi e il cielo chiaro come dimora per una sosta. L’imbrunire ci inseguiva sulla via del ritorno ma non ci prese, così ritornammo con in dono un desiderio di altri cammini e valli. La cima del Mottarone ci regalò i sette laghi sottostanti, luminosi come frammenti di vetro nel sole, soprattutto il lago d’Orta che fu meta di numerose soste e vacanze negli a venire che ora sono anni andati nel nido del tempo che fu, dove ci sono gusci di uova infrante e qualche piuma, nient’altro.

Chiudo gli occhi e chiedo ai ricordi di fermarsi, non so quanti ce ne siano ancora, né quanti ritorneranno a farmi visita. Ora che la notte mi avvolge, posso prendere il mio quaderno, la solita penna e scrivere il buio, non come fosse inchiostro, ma assecondando la sua vera natura simile alla carta in alcuni momenti, simile alla pietra in altri. Prima dei miei strumenti umani devo piegarmi a quelli dell’immaginazione e incidere le parole in frasi nel vento e nelle nuvole che si immergono nelle profondità dell’occhio di questo Dio addormentato.

Io non pretendo di conoscerne il volto, non posso immaginarne il pensiero, mi sono ignote le sue intenzioni. Ma so, che una sera di molti anni fa, quando ambivo al monastero e alle luci di New York allo stesso tempo, dopo avere guardato le solite finestre serali, mi ero accucciata nell'angolo, sotto il tavolo del soggiorno, da cui guardavo la televisione e mi ero sentita piccola, molto piccola. Avevo pensato a quella stanza come all'occhio di Dio e tempo, molto tempo dopo, avevo scritto questi pochi versi: “La stanza era l’occhio di Dio / e noi non eravamo che / polvere in quell'occhio”.

Ma ora so che la polvere è frammento di ciò che è stato e molecola di ciò che sarà.

Per questo non ho paura e torno ad aprire la finestra per salutare il mio albero e le nuvole invisibili, il cielo addormentato, voi che mi leggete e capite, voi che siete con me in quella stanza sotto il tavolo e in questa stanza, seduti in terra, silenziosi, se alzate una mano potete sfiorare la mia.

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