Questa è l’ora incerta che tra il giorno e la notte sta,
quella in cui la luce tremolante del giorno si abbandona alle mani salde dell’oscurità
e poi scompare. Qualche anno fa avevo preso l’abitudine di ascoltare The Köln Concert di Keit Jarrett sul
confine dell’imbrunire e lo faccio anche oggi e guardo il mondo, non quello
sotto i miei occhi, non quello di oggi e non quello di allora, ma un mondo
immaginato o vissuto in un tempo ancor più lontano. Richiamo nel teatro della
memoria i monaci dell’Abbazia cistercense di Heiligenkreuz, consacrata nel
1133, in processione per recarsi nel coro a recitare i vespri, vedo il cielo
nell’Abbazia di Jumièges, ancora più antica perché risale al 654, e sento
risuonare anche lì canti che non ho mai udito. Dietro la casa di mia nonna
paterna in Calabria, quando il sole scendeva e noi bambini dovevamo rientrare
in casa per cena, staccavo una fogliolina di menta selvatica dai cespugli e
andavo dietro il fienile per guardare i colori del tramonto e immaginare le
vite degli altri che abitavano nelle case in collina di cui vedevo accendersi
le luci.
Le luci che si accendono, ce ne sono altre. A un paio di
chilometri dalla casa dei miei genitori dove sono cresciuta, intravedevo una
fila di palazzi abbastanza alti da dare l’illusione di essere lo skyline di New
York. Ogni finestra che si illuminava era un frammento di quel desiderio di
essere altrove, di viaggiare, di scoprire l’America che ho coltivato per molti
anni prima di poter far coincidere le mie immaginazioni con i grattacieli reali
della città che non dorme mai, accompagnata dalla musica jazz che ascoltavo
ossessivamente in quegli anni.
Dalla cima della Torre Nord, dalle finestre del ristorante Windows on the World e poi dalla
terrazza ho visto il mondo dalla sua più alta vetta e lo stesso giorno ho visto
le tanto agognate luci di Manhattan accendersi dalla cima dell’Empire State
Building, proprio dove finisce il film con Meg Ryan e Tom Hanks Insonnia d’amore.
Ora che ho dato l’addio a questo giorno di una fredda
primavera che ignora come stiamo noi, ora che ho convocato la notte, posso
compiere il rito inverso e chiudere le persiane, chiudere tutto il mondo fuori
da me. Apro e chiudo la mano destra per salutare l’albero che vive e respira
ridosso alle mie finestre, vorrei che bastasse un gesto solitario a confondere
il tessuto del buio con il tremolio della prima luce che ho acceso nello
studio. Conosco a memoria le copertine dei libri che amo e che si offrono al
mio sguardo laterale. Non ho bisogno di più luce per muovermi a piccoli passi
come se non conoscessi tutti i sentieri che attraversano queste stanze e si
tuffano in un altrove che neanche i muri possono fermare.
La notte è fatta di piccole ombre che si stringono le une
alle altre e ci danno l’impressione di essere un unico corpo. Bisogna fermarsi
e in silenzio aspettare che un chiarore misterioso si insinui e ci mostri la
loro vera consistenza. Una si posa sulla mia mano ancora aperta. È come avere
una farfalla che si è posata sul fiore della mia sera e si fida, sa che non
cercherò di afferrarla. Una a una sfilano le piccole ombre e si mescolano con
le finestre illuminate.
Dall'altro della stanza si apre all'improvviso uno scorcio
della prima volta che ho visto le Dolomiti, del Sass Pordoi deserto e ancora
ricoperto di neve, poi del Monte Bianco che non mi parlava, del rifugio nei
Pirenei francesi chiuso da decenni e tutto le Cirque de Gavarnie che ci teneva nelle sue braccia di pietra e
offriva gli alberi maestosi e il cielo chiaro come dimora per una sosta. L’imbrunire
ci inseguiva sulla via del ritorno ma non ci prese, così ritornammo con in dono
un desiderio di altri cammini e valli. La cima del Mottarone ci regalò i sette
laghi sottostanti, luminosi come frammenti di vetro nel sole, soprattutto il
lago d’Orta che fu meta di numerose soste e vacanze negli a venire che ora sono
anni andati nel nido del tempo che fu, dove ci sono gusci di uova infrante e
qualche piuma, nient’altro.
Chiudo gli occhi e chiedo ai ricordi di fermarsi, non so
quanti ce ne siano ancora, né quanti ritorneranno a farmi visita. Ora che la
notte mi avvolge, posso prendere il mio quaderno, la solita penna e scrivere il
buio, non come fosse inchiostro, ma assecondando la sua vera natura simile alla
carta in alcuni momenti, simile alla pietra in altri. Prima dei miei strumenti
umani devo piegarmi a quelli dell’immaginazione e incidere le parole in frasi
nel vento e nelle nuvole che si immergono nelle profondità dell’occhio di
questo Dio addormentato.
Io non pretendo di conoscerne il volto, non posso
immaginarne il pensiero, mi sono ignote le sue intenzioni. Ma so, che una sera di
molti anni fa, quando ambivo al monastero e alle luci di New York allo stesso
tempo, dopo avere guardato le solite finestre serali, mi ero accucciata nell'angolo,
sotto il tavolo del soggiorno, da cui guardavo la televisione e mi ero sentita
piccola, molto piccola. Avevo pensato a quella stanza come all'occhio di Dio e
tempo, molto tempo dopo, avevo scritto questi pochi versi: “La stanza era l’occhio
di Dio / e noi non eravamo che / polvere in quell'occhio”.
Ma ora so che la polvere è frammento di ciò che è stato e
molecola di ciò che sarà.
Per questo non ho paura e torno ad aprire la finestra per
salutare il mio albero e le nuvole invisibili, il cielo addormentato, voi che
mi leggete e capite, voi che siete con me in quella stanza sotto il tavolo e in
questa stanza, seduti in terra, silenziosi, se alzate una mano potete sfiorare
la mia.
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