martedì 28 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/569. Per le infinite strade del mondo, per i giorni di pioggia e l’accendersi lento del sole

 



 

Oggi pomeriggio ho presentato alla Biblioteca Sormani di Milano il volume postumo di poesie inedite 1952-1965 Esercizi d’addio di Piera Oppezzo, edito da Interno Poesia di Andrea Cati. Con me c’erano il curatore del volume e regista del bellissimo film Il mondo in una stanza. Piera Oppezzo poeta, Luciano Martinengo, la poetessa Mariapia Quintavalla e la giovane italianista Gaia Carnevale che si è laureata con due tesi, triennale e magistrale, dedicate alla Oppezzo. Il cortile della Sormani è un luogo raccolto che prende luce soprattutto dal rettangolo di cielo sovrastante ed è molto adatto a fare presentazioni con la bella stagione. Siamo entrati nel vivo della poesia della Oppezzo grazie a una intensa lettura di Anna Nogara, poi Luciano ci ha raccontato la genesi dei due volumi da lui curati e del film, e della loro amicizia, Mariapia ha raccontato a tutto tondo l’esperienza di vita della Oppezzo, che ha conosciuto e infine è intervenuta la giovane Gaia che ha lavorato sui dattiloscritti e da subito ha sentito una profonda consonanza con la poetessa

Io ho parlato dopo Luciano e mi sono lasciata trasportare dalle suggestioni che ho avuto prima di tutto come lettrice e poi come poetessa. Ne faccio qui una breve sintesi.

 

La lettura di Esercizi d’addio è stata prima di tutto un viaggio attraverso quel misterioso equilibrio di parole e immagini, ritmo e forma che fa di una poesia una poesia. Tutto il mondo poetico della Oppezzo parla con la sua voce rarefatta che procede per sottrazioni. Se è vero che ogni scrittura è frutto di una scelta, questo è ancor più vero nella poesia. Ogni parola scritta mantiene nell’ombra tutte le altre parole che non sono state scelte, ed è stupefacente vedere come già giovanissima, la Oppezzo padroneggiasse la materia incandescente della poesia. Scrivere versi significa anche immergersi nel profondo di se stessi, della vita e del mondo. Ci si può immergere come scendendo nel mare dei Sargassi del proprio inconscio, come faceva Sylvia Plath o si può scendere nelle profondità della terra, maneggiare il magma e manipolare la materia incandescente ogni volta come novelli Efesto, zoppi, accecati dal fuoco, inadatti a camminare con leggerezza sulla superficie della terra. Oltre alla Plath, sua coetanea, i versi della Oppezzo mi hanno richiamato a ogni lettura gli attimi sfolgoranti, i momenti di essere di Virginia Woolf, quella sua capacità di rendere eterno nelle parole ciò che per sua stessa natura è destinato all’oblio. Proviamo a immaginare questa poetessa bella e ombrosa procedere in ogni giorno, ogni ora e tendere la mano a cogliere quei frutti luminosi che ai poeti sono visibili prima che agli altri essere umani. Ora che ha riempito il cesto e lo ha posto sul suo tavolo, accanto a un taccuino e a una vecchia macchina da scrivere Olivetti, può iniziare a scegliere il tempo e le stagioni, e proprio il tempo è uno dei pilastri della sua poesia, le ore del giorno e della notte che non sono solo il paesaggio prediletto di questi versi, ma pure espressioni della sua anima e del suo essere, in un procedimento che fa aderire la poetessa al mondo che ne recherà per sempre l’impronta. È proprio questa vita, colta nell’attimo del suo essere profondo, che rivela bagliori di verità, scintille di un fuoco spento, lucciole di una notte estiva che non avremo mai veduto.

Questi versi giovanili della Oppezzo nascono da una profonda adesione alla vita quotidiana e alle sue fatiche, non a un mondo astratto e disincarnato. C’è, infatti, un tu amoroso cui lei si rivolge, ci sono persone che vivono, si muovono, lavorano: una madre che va ai giardini con i figli; il ragazzo vicino alla finestra; la donna dai riccioli di platino; il muratore con la gamba rigida; l’uomo misero e muto; la bambina farfalla. Non vi sembra di averli davvero davanti ai vostri occhi? Ma la poetessa è consapevole che la distanza tra l’io e l’altro è incolmabile, anche quella del Je est un autre di un folgorante, giovanissimo Rimbaud. Solo la poesia riesce a farsi ponte in questa distanza e a segnare un cammino percorribile. In questa distanza abita il silenzio, che non è nemico della poesia, ne è anzi, origine e pre-condizione necessaria. E un silenzio immenso abita il mondo di questa giovane donna giovane che ha già scelto il suo destino. Sarà poeta a qualunque costo, a non importa quale prezzo. Io l’ho conosciuta in anni lontani, ma non frequentata, la ricordo alla Libreria delle Donne in via Dogana, nella casa occupata di Via Morigi qui a Milano, ho respirato quella stessa aria dell’impegno politico della generazione precedente la mia. Ho poi visto con Luciano il suo bellissimo film, so quanto lei sia rimasta isolata e appartata, forse più per scelta, per conseguenza che per destino. La sua voce poetica, la sua dimensione filosofica e spirituale, mi dice che per lei la poesia è sempre venuta prima della politica. Lei ha conosciuto la normalità di decine di milioni di vite ordinarie, di quelli che come lei sono nati in famiglie normali, semplici. Lei ha conosciuto l’ordinarietà e l’alienazione dei lavori comuni, ha fatto la sarta e la dattilografa. Conosce a fondo il tempo alienato del lavoro dipendente, svolto per vivere e non per passione, ed è riuscita a eternizzare anche quella ordinarietà e quella normalità. Non si sottrae mai al dolore Piera Oppezzo, ma lo attraversa e lo plasma, lo respira e lo vince con la forza delle parole e di un io ben individuato sin da giovanissima. La sua non è poesia lirica in senso stretto e tanto meno neo-avanguardista. Lei è riuscita a rendere poetiche anche le cose più umili della vita quotidiana e quel che emerge, alla fine, è anche la sua biografia, perché la vera biografia di un poeta è la sua opera, come mi dice sempre il mio amico poeta Danilo Bramati.

 

Avrei voluto leggere almeno una poesia, cosa che poi ho deciso di non fare, per restare nell’incanto della voce di Anna Nogara, così la trascrivo qui e vi invito a leggere questa poetessa che meritava un altro destino.

 

 

Amore

 

Ti amo, per le infinite

strade del mondo,

per i giorni di pioggia

e l’accendersi lento del sole:

tutte cose che vedo ricordandoti.

Ma, soprattutto, ti amo

per la tua consapevole vita.

 

settembre ’56

 

Questa Cronaca 569 di martedì 28 settembre del secondo anno senza Carnevale, si chiude così, con la voce di Piera Oppezzo ventiduenne.

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