Oggi
pomeriggio ho presentato alla Biblioteca Sormani di Milano il volume postumo di
poesie inedite 1952-1965 Esercizi d’addio
di Piera Oppezzo, edito da Interno Poesia di Andrea Cati. Con me c’erano il
curatore del volume e regista del bellissimo film Il mondo in una stanza. Piera Oppezzo poeta, Luciano Martinengo, la
poetessa Mariapia Quintavalla e la giovane italianista Gaia Carnevale che si è
laureata con due tesi, triennale e magistrale, dedicate alla Oppezzo. Il
cortile della Sormani è un luogo raccolto che prende luce soprattutto dal rettangolo
di cielo sovrastante ed è molto adatto a fare presentazioni con la bella
stagione. Siamo entrati nel vivo della poesia della Oppezzo grazie a una
intensa lettura di Anna Nogara, poi Luciano ci ha raccontato la genesi dei due
volumi da lui curati e del film, e della loro amicizia, Mariapia ha raccontato
a tutto tondo l’esperienza di vita della Oppezzo, che ha conosciuto e infine è
intervenuta la giovane Gaia che ha lavorato sui dattiloscritti e da subito ha sentito una profonda consonanza con la poetessa
Io
ho parlato dopo Luciano e mi sono lasciata trasportare dalle suggestioni che ho
avuto prima di tutto come lettrice e poi come poetessa. Ne faccio qui una breve
sintesi.
La
lettura di Esercizi d’addio è stata
prima di tutto un viaggio attraverso quel misterioso equilibrio di parole e
immagini, ritmo e forma che fa di una poesia una poesia. Tutto il mondo poetico
della Oppezzo parla con la sua voce rarefatta che procede per sottrazioni. Se è
vero che ogni scrittura è frutto di una scelta, questo è ancor più vero nella
poesia. Ogni parola scritta mantiene nell’ombra tutte le altre parole che non
sono state scelte, ed è stupefacente vedere come già giovanissima, la Oppezzo
padroneggiasse la materia incandescente della poesia. Scrivere versi significa anche
immergersi nel profondo di se stessi, della vita e del mondo. Ci si può
immergere come scendendo nel mare dei Sargassi del proprio inconscio, come
faceva Sylvia Plath o si può scendere nelle profondità della terra, maneggiare
il magma e manipolare la materia incandescente ogni volta come novelli Efesto,
zoppi, accecati dal fuoco, inadatti a camminare con leggerezza sulla superficie
della terra. Oltre alla Plath, sua coetanea, i versi della Oppezzo mi hanno
richiamato a ogni lettura gli attimi sfolgoranti, i momenti di essere di
Virginia Woolf, quella sua capacità di rendere eterno nelle parole ciò che per
sua stessa natura è destinato all’oblio. Proviamo a immaginare questa poetessa
bella e ombrosa procedere in ogni giorno, ogni ora e tendere la mano a cogliere
quei frutti luminosi che ai poeti sono visibili prima che agli altri essere
umani. Ora che ha riempito il cesto e lo ha posto sul suo tavolo, accanto a un
taccuino e a una vecchia macchina da scrivere Olivetti, può iniziare a
scegliere il tempo e le stagioni, e proprio il tempo è uno dei pilastri della
sua poesia, le ore del giorno e della notte che non sono solo il paesaggio
prediletto di questi versi, ma pure espressioni della sua anima e del suo
essere, in un procedimento che fa aderire la poetessa al mondo che ne recherà
per sempre l’impronta. È proprio questa vita, colta nell’attimo del suo essere
profondo, che rivela bagliori di verità, scintille di un fuoco spento, lucciole
di una notte estiva che non avremo mai veduto.
Questi
versi giovanili della Oppezzo nascono da una profonda adesione alla vita
quotidiana e alle sue fatiche, non a un mondo astratto e disincarnato. C’è,
infatti, un tu amoroso cui lei si rivolge, ci sono persone che vivono, si muovono,
lavorano: una madre che va ai giardini con i figli; il ragazzo vicino alla
finestra; la donna dai riccioli di platino; il muratore con la gamba rigida; l’uomo
misero e muto; la bambina farfalla. Non vi sembra di averli davvero davanti ai
vostri occhi? Ma la poetessa è consapevole che la distanza tra l’io e l’altro è
incolmabile, anche quella del Je est un
autre di un folgorante, giovanissimo Rimbaud. Solo la poesia riesce a farsi
ponte in questa distanza e a segnare un cammino percorribile. In questa
distanza abita il silenzio, che non è nemico della poesia, ne è anzi, origine e
pre-condizione necessaria. E un silenzio immenso abita il mondo di questa
giovane donna giovane che ha già scelto il suo destino. Sarà poeta a qualunque
costo, a non importa quale prezzo. Io l’ho conosciuta in anni lontani, ma non
frequentata, la ricordo alla Libreria delle Donne in via Dogana, nella casa
occupata di Via Morigi qui a Milano, ho respirato quella stessa aria dell’impegno
politico della generazione precedente la mia. Ho poi visto con Luciano il suo
bellissimo film, so quanto lei sia rimasta isolata e appartata, forse più per
scelta, per conseguenza che per destino. La sua voce poetica, la sua dimensione
filosofica e spirituale, mi dice che per lei la poesia è sempre venuta prima
della politica. Lei ha conosciuto la normalità di decine di milioni di vite
ordinarie, di quelli che come lei sono nati in famiglie normali, semplici. Lei ha
conosciuto l’ordinarietà e l’alienazione dei lavori comuni, ha fatto la sarta e
la dattilografa. Conosce a fondo il tempo alienato del lavoro dipendente,
svolto per vivere e non per passione, ed è riuscita a eternizzare anche quella
ordinarietà e quella normalità. Non si sottrae mai al dolore Piera Oppezzo, ma
lo attraversa e lo plasma, lo respira e lo vince con la forza delle parole e di
un io ben individuato sin da giovanissima. La sua non è poesia lirica in senso
stretto e tanto meno neo-avanguardista. Lei è riuscita a rendere poetiche anche
le cose più umili della vita quotidiana e quel che emerge, alla fine, è anche
la sua biografia, perché la vera biografia di un poeta è la sua opera, come mi
dice sempre il mio amico poeta Danilo Bramati.
Avrei
voluto leggere almeno una poesia, cosa che poi ho deciso di non fare, per
restare nell’incanto della voce di Anna Nogara, così la trascrivo qui e vi
invito a leggere questa poetessa che meritava un altro destino.
Amore
Ti
amo, per le infinite
strade
del mondo,
per
i giorni di pioggia
e
l’accendersi lento del sole:
tutte
cose che vedo ricordandoti.
Ma,
soprattutto, ti amo
per
la tua consapevole vita.
settembre ’56
Questa
Cronaca 569 di martedì 28 settembre del secondo anno senza Carnevale, si chiude
così, con la voce di Piera Oppezzo ventiduenne.