domenica 2 marzo 2014

Ogni mio verso è l'ultima cosa che so su me stessa

La sua poesia – orgogliosa e arrogante – è tutto un accavallarsi di invocazioni al lettore (come poi le sue lettere), mentre sul tessuto intimistico di quelle confessioni poetiche si aprono squarci dove, come nelle dissolvenze del cinema, si stagliano Amleto, Ofelia, Re David e Saul morente, Elena, Arianna, ma anche Marina Mniszek, figura quasi da leggenda, che nella Russia dei Torbidi aveva sposato il falso Dmitrij (o meglio: due falsi Dmitrij in successione), condividendone il destino di morte («non l'amica essere, ma la complice! Gemello – sosia – slanciato fratello di sangue, fiamma di rogo, la sua scimitarra ricurva»). Calamita troppo forte per resistervi, per una poetessa come lei («digrignante eretica, sorella del Savonarola») sempre propensa al gioco dell'identificazione sprezzante.
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«Caparbia, indocile, sempre sovreccitata, sempre immersa nel folto del cataclisma» (A. M. Ripellino), lei non stava certo lì a cercare una qualche rappacificazione. 
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I taccuini ci raccontano, col loro andamento sconnesso, la Cvetaeva di quei tragici anni. A partire dal ritratto che ne fa la figlia Ariadna (Alja), sei anni ma alquanto precoce («così amiche noi due! Così orfane entrambe!»): 
«Ha gli occhi verdi, meravigliose sopracciglia folte, capelli chiari vaporosi che terminano in favolosi boccoli. Se si taglia una ciocca, si può pensare che sia un braccialetto senza fibbia, per un piccolo braccio».
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Come nelle vecchie soffitte, la Cvetaeva nei suoi affascinanti taccuini – diario e romanzo a un tempo – c'infila di tutto: sogni, canzoncine infantili, lettere, lunghi brani di Alja, considerazioni sulla propria poesia («ogni mio verso è l'ultima cosa che so su me stessa»), parole terribili sulla morte per stenti della figlia più piccola, sulla crescente emarginazione, sull'angoscia di non sentirsi indispensabile.
E poi una feroce autopsia dei propri reiterati amori ancora in corso d'opera, sorta di bilancio continuo, ma anche dialogo con l'amante assente, ammissione tacita dell'impossibilità a farlo nello spazio estraneo del reale.

frammenti della recensione di Giuseppe Dierna ai Taccuini 1919-1921 
di Marina Cvetaeva 
pubblicati da Voland nella traduzione di Pina Napolitano
Repubblica 1 marzo 2014

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