I più grandi romanzi del Novecento, ha
scritto Raffaele La Capria, sono dei «capolavori falliti». Non certo per
difetto dei loro autori, fra i maggiori di ogni epoca - Musil, Kafka, Faulkner,
Joyce, Svevo e altri, fra i quali alcuni sudamericani - ma proprio per la loro
grandezza e la loro verità.
Sono le grandi narrazioni che hanno affrontato,
raccontato e assunto su di sé, nella loro stessa struttura, la verità della
loro e nostra epoca, la disgregazione del mondo, l’eclissi di un significato
centrale capace di dare unità e razionalità alle vicende individuali e
collettive, la distruzione della concezione lineare del tempo. Il romanzo della
nostra vita è un grande mare conradiano; un gorgo che risucchia, frantuma e
disperde le storie e l’io stesso che le vive. Si è aperto un abisso fra
scrivere la Storia e scrivere storie. Mentre lo storico e ogni persona, quando
cercano di capire ciò che è accaduto e sta accadendo, non possono fare a meno
di tentare di ordinare i fatti e il loro significato, quando invece si racconta
- secondo le parole di Manzoni - come il singolo individuo, l’Io, vive quei
fatti e ne viene intessuto o disgregato, il narratore non può narrare la Storia
vissuta se non come quell’incubo di cui parlava Joyce o come la sconnessa serie
di eventi stravolti nel Tamburo di latta.
(...)
Per citare, in
un altro senso, il titolo di un libro di Corrado Alvaro, oggi i maestri possono
essere solo maestri del diluvio;
(...)
Uno di questi sconcertanti, affascinanti, sconvolgenti maestri è oggi António
Lobo Antunes.
(...)
La scrittura,
per Lobo Antunes, è un fiume in piena, una mareggiata di tante opere che è quasi
impossibile elencare tutte insieme ai loro traduttori. La memoria - come nel
capolavoro Arcipelago dell’insonnia (2008) - è una surreale, folle abolizione
del tempo.
(...)
Lobo Antunes spinge quasi all'estremo la dilatazione e la
compressione del tempo, falce inesorabile e rugginosa, il gorgo del monologo
interiore e del flusso di coscienza che tutto risucchiano e macinano, anche se
ogni grido di dolore è inestinguibile e screzia l’aria in eterno. La
prospettiva narrativa, la punteggiatura, l’unità della frase, la sintassi, lo
stesso spazio grafico vengono scompaginati in un rimescolamento che è quello
della vita intera. Tutto è un brulichìo di frammenti, ma tutto è sempre
presente; non c’è differenza fra i vivi e i morti, come nel romanzo Pedro
Páramo del grande messicano Juan Rulfo e come forse nella mente di Dio, in cui
non c’è differenza fra ieri e domani. Antunes è un grande epico, perché coglie
la totalità.
(...)
Credo che per lui vivere sia scrivere, solo scrivere, sempre
scrivere, tessere un’enorme ragnatela di parole sperando di non poterne mai
uscire; vivere per scrivere e scrivere per non vivere, costruire labirinti
senza bisogno di un Minotauro al loro centro, perché la vita è piena di
Minotauri, ce ne sono dappertutto pronti a divorare le vittime. Forse lo
scrittore, nel labirinto delle sue parole, è proprio il Minotauro.
frammenti dell'articolo Lobo Antunes, minotauro nel suo labirinto"
Claudio Magris
Corriere della Sera
mercoledì 22 gennaio 2014
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