lunedì 20 giugno 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/834. Era la rabbia dei temporali estivi furiosa, impulsiva, svelta a montare così come a zittirsi

 

Quando muore qualcuno lo sappiamo che non se ne è davvero andato via. Perché sentiamo la presenza intorno e dentro di noi, la voce cara che ci parla, a volte addirittura il profumo. Finché qualcuno viene ricordato non è davvero morto. Ma cosa succede se un morto torno dal luogo innominabile e non torna come fantasma, ma come persona in carne e ossa? È da questo spunto narrativo che Giorgia Tribuiani ha costruito il suo gran bel terzo romanzo Padri, pubblicato da Fazi qualche mese fa e presentato al Premio Strega, che ho divorato. La lingua è bellissima, chiara e precisa, il ritmo travolgente.

“Quel pomeriggio un vento nuovo si affannò a oscurare il cielo – un’unica stringa, gialla e malata, resisteva tra le nubi e un mare d’asfalto – e, come una raccoglitrice nel giorno della prima delusione d’amore, con la stessa irruenza e lo stesso desiderio di rovinare il mondo, a strappare e tirare giù dagli alberi le nespole, i fichi, le albicocche e l’estate troppo acerba. Era la rabbia dei temporali estivi: furiosa, impulsiva, svelta a montare così come a zittirsi, e Gaia dovette colmare correndo la distanza tra il cancello e le scale, i polsi sulla fronte e i gomiti in avanti a parare le sferzate della pioggia. Stampò orme d’acqua e polvere su tutti i gradini e rincasò ignorando il tappetino. Si affacciò invano in ogni stanza cercando il padre e il nonno; poi si tolse i vestiti bagnati, ne indossò di nuovi e riempì una brocca d’acqua per dare da bere alle piante: dare da bere alle piante la calmava”.

La giovane Gaia, che dovrebbe scrivere la tesi, si trova intrappolata nella cittadina di Alba Adriatica, piacevole come lei la descrive con anche qualche riferimento reale, alle prese con il ritorno di nonno Diego, deceduto da 40 anni, suo padre Oscar e una crisi matrimoniale che esplode perché sua madre Clara si rifiuta di credere che quel barbone senza mestiere possa essere davvero il suo mancato suocero. Ecco una tipica scena balneare:

“Sul lungomare l’odore salmastro del pomeriggio era stato annichilito da quelli della sera. Fumo e profumi. Sudore. Dopobarba. Odori umani spezzati da pizzerie che rompevano la fila di hotel sul lato della strada opposto alla spiaggia; odori in frantumi, frammenti di odore, così come la musica e le voci: narici e orecchie facevano appena appena in tempo a ritrovarsi, abituarsi, a risintonizzarsi, che ecco che tutto già cambiava, era cambiato. Latino americano, discomusic, karaoke; ogni sera. Passeggini, tacchi, quattro anziane sottobraccio, ragazzi seduti su vecchi schienali di panchine sbiadite – gambe distese, gambe piegate; gambe pronte a scattare al passaggio di altre gambe – per dirigersi in direzione opposta alla fiumana, verso sud: si stava lentamente abituando a tutto questo? Diego tirò fuori il tabacco. Accettare questo mondo, starci dentro non potendo starne fuori, rivedere i vecchi amici: avrebbe camminato (pure lui, ma per forza) sottobraccio, avrebbe spinto i passeggini coi nipoti. Il tabacco gli cadde. Suo figlio gli passò una Marlboro e fumò con lui contro la siepe che costeggiava la passeggiata, gli sguardi al tratto di spiaggia con le giostrine, i tappeti elastici e le file di genitori che, un metro alla volta, spingevano i passeggini fino alle casse”.

Ma Diego, stonato da quel ritorno, non può non confrontare il suo tempo con questo tempo:

“Ad onta dei vecchi all’entrata, ad onta di suo figlio e sua nipote lì dintorno, Diego varcò la porta a vetri volendo accondiscendere all’inganno di essere rientrato nel suo tempo, e che per una sera, una soltanto, gli fosse concesso un commiato alla vita perduta; ma affacciandosi sull’area di legno circolare, un’impalcatura edificata sulla rena e sbiadita dal sole, delimitata da sedie e tavolini, vide dissiparsi l’illusione. Lungo il perimetro gli anziani più timidi osservavano le danze delle gonne e degli orli delle giacche attraverso la rotonda, ed erano gonne ed erano giacche che il Diego della vita precedente non riconosceva: dov’erano quei bei colori accesi? i rossi e i gialli e i verdi e le gonne lunghissime e svasate, i corpetti coi pois, fiocchi rossi nei capelli? dov’erano quei bravi stivaletti con il tacco e con la punta arrotondata?”.

È proprio il tempo il signore di questo romanzo, il tempo che prima ha gettato Diego sulla spiaggia del presente come un naufrago... e poi dopo poche settimane gli ruba quel che resta della giovinezza e lo trasforma in un vecchio... perché l'ordine del tempo non può essere sovvertito... e il passato serve solo a ricordarci che è del presente che dobbiamo avere cura e non vivere di ricordi e rimpianti. Una delle cose che più mi è piaciuta è come la talentuosa scrittrice sia riuscita a rendere plausibile e verosimile, grazie a dettagli ed elementi di realtà, un avvenimento perturbante, il ritorno di un morto, che sconvolge la vita di suo figlio e della sua famiglia. E la cosa più strana non è neanche questa inattesa resurrezione, ma la segretezza dell'evento... a nessuno viene in mente di raccontare alle autorità e ai media che un morto è tornato. Tutte le tensioni e i non detti della famiglia esplodono intorno al lutto e all'assenza che Oscar ha subito da bambino... Oscar che guarda ossessivamente i VHS con le immagini di Gaia bambina... mentre Clara fugge come se non avesse aspettato di avere il giusto pretesto per farlo. Da dove è tornato Diego? E perché è tornato? Non scrivo altro, perché i misteri devono essere preservati.

Oggi è lunedì 20 giugno del terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 834 rilegge il romanzo respirando l’aroma della pineta di Alba Adriatica.

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