Quando muore qualcuno lo sappiamo che non se ne è davvero andato via. Perché sentiamo la presenza intorno e dentro di noi, la voce cara che ci parla, a volte addirittura il profumo. Finché qualcuno viene ricordato non è davvero morto. Ma cosa succede se un morto torno dal luogo innominabile e non torna come fantasma, ma come persona in carne e ossa? È da questo spunto narrativo che Giorgia Tribuiani ha costruito il suo gran bel terzo romanzo Padri, pubblicato da Fazi qualche mese fa e presentato al Premio Strega, che ho divorato. La lingua è bellissima, chiara e precisa, il ritmo travolgente.
“Quel pomeriggio un vento nuovo si affannò a oscurare il
cielo – un’unica stringa, gialla e malata, resisteva tra le nubi e un mare
d’asfalto – e, come una raccoglitrice nel giorno della prima delusione d’amore,
con la stessa irruenza e lo stesso desiderio di rovinare il mondo, a strappare
e tirare giù dagli alberi le nespole, i fichi, le albicocche e l’estate troppo
acerba. Era la rabbia dei temporali estivi: furiosa, impulsiva, svelta a
montare così come a zittirsi, e Gaia dovette colmare correndo la distanza tra
il cancello e le scale, i polsi sulla fronte e i gomiti in avanti a parare le
sferzate della pioggia. Stampò orme d’acqua e polvere su tutti i gradini e
rincasò ignorando il tappetino. Si affacciò invano in ogni stanza cercando il
padre e il nonno; poi si tolse i vestiti bagnati, ne indossò di nuovi e riempì
una brocca d’acqua per dare da bere alle piante: dare da bere alle piante la
calmava”.
La giovane Gaia, che dovrebbe scrivere la tesi, si trova
intrappolata nella cittadina di Alba Adriatica, piacevole come lei la descrive
con anche qualche riferimento reale, alle prese con il ritorno di nonno Diego,
deceduto da 40 anni, suo padre Oscar e una crisi matrimoniale che esplode perché
sua madre Clara si rifiuta di credere che quel barbone senza mestiere possa
essere davvero il suo mancato suocero. Ecco una tipica scena balneare:
“Sul lungomare l’odore salmastro del pomeriggio era stato
annichilito da quelli della sera. Fumo e profumi. Sudore. Dopobarba. Odori
umani spezzati da pizzerie che rompevano la fila di hotel sul lato della strada
opposto alla spiaggia; odori in frantumi, frammenti di odore, così come la
musica e le voci: narici e orecchie facevano appena appena in tempo a
ritrovarsi, abituarsi, a risintonizzarsi, che ecco che tutto già cambiava, era
cambiato. Latino americano, discomusic, karaoke; ogni sera. Passeggini, tacchi,
quattro anziane sottobraccio, ragazzi seduti su vecchi schienali di panchine
sbiadite – gambe distese, gambe piegate; gambe pronte a scattare al passaggio
di altre gambe – per dirigersi in direzione opposta alla fiumana, verso sud: si
stava lentamente abituando a tutto questo? Diego tirò fuori il tabacco.
Accettare questo mondo, starci dentro non potendo starne fuori, rivedere i
vecchi amici: avrebbe camminato (pure lui, ma per forza) sottobraccio, avrebbe
spinto i passeggini coi nipoti. Il tabacco gli cadde. Suo figlio gli passò una
Marlboro e fumò con lui contro la siepe che costeggiava la passeggiata, gli
sguardi al tratto di spiaggia con le giostrine, i tappeti elastici e le file di
genitori che, un metro alla volta, spingevano i passeggini fino alle casse”.
Ma Diego, stonato da quel ritorno, non può non
confrontare il suo tempo con questo tempo:
“Ad onta dei vecchi all’entrata, ad onta di suo figlio e
sua nipote lì dintorno, Diego varcò la porta a vetri volendo accondiscendere
all’inganno di essere rientrato nel suo tempo, e che per una sera, una
soltanto, gli fosse concesso un commiato alla vita perduta; ma affacciandosi
sull’area di legno circolare, un’impalcatura edificata sulla rena e sbiadita
dal sole, delimitata da sedie e tavolini, vide dissiparsi l’illusione. Lungo il
perimetro gli anziani più timidi osservavano le danze delle gonne e degli orli
delle giacche attraverso la rotonda, ed erano gonne ed erano giacche che il
Diego della vita precedente non riconosceva: dov’erano quei bei colori accesi?
i rossi e i gialli e i verdi e le gonne lunghissime e svasate, i corpetti coi
pois, fiocchi rossi nei capelli? dov’erano quei bravi stivaletti con il tacco e
con la punta arrotondata?”.
È proprio il tempo il signore di questo romanzo, il tempo
che prima ha gettato Diego sulla spiaggia del presente come un naufrago... e
poi dopo poche settimane gli ruba quel che resta della giovinezza e lo
trasforma in un vecchio... perché l'ordine del tempo non può essere
sovvertito... e il passato serve solo a ricordarci che è del presente che
dobbiamo avere cura e non vivere di ricordi e rimpianti. Una delle cose che più
mi è piaciuta è come la talentuosa scrittrice sia riuscita a rendere plausibile e verosimile,
grazie a dettagli ed elementi di realtà, un avvenimento perturbante, il ritorno di un morto, che sconvolge la vita
di suo figlio e della sua famiglia. E la cosa più strana non è neanche questa
inattesa resurrezione, ma la segretezza dell'evento... a nessuno viene in mente
di raccontare alle autorità e ai media che un morto è tornato. Tutte le
tensioni e i non detti della famiglia esplodono intorno al lutto e all'assenza
che Oscar ha subito da bambino... Oscar che guarda ossessivamente i VHS con le
immagini di Gaia bambina... mentre Clara fugge come se non avesse aspettato di avere
il giusto pretesto per farlo. Da dove è tornato Diego? E perché è tornato? Non scrivo
altro, perché i misteri devono essere preservati.
Oggi è lunedì 20 giugno del terzo anno senza Carnevale e
questa Cronaca 834 rilegge il romanzo respirando l’aroma della pineta di Alba Adriatica.
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