sabato 31 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/510. Estate e Calabria erano una sola parola, gioia di vivere e mare e sole

 



Agosto, le vacanze finalmente! Che grande rito collettivo sono state le ferie d’agosto per noi baby-boomer. E in questa comunanza ogni famiglia aveva la propria ritualità.

I preparativi: acquisto dei doni per i parenti, chili di zucchero e caffè, come se giù non ce ne fosse, stoffe, vestiti, scarpe. Zucchero e caffè ci ho messo un po’ a capirlo come regalo, ma il caffè, freddo e già pronto, o appena fatto con la caffettiera napoletana e zuccheratissimo era una cortesia per gli ospiti imprescindibile. Ho conservato io la “guantiera” – piccolo vassoio di vetro – che era a della nonna, e che girava per casa a qualunque ora.

La partenza: quasi sempre nel cuore della notte, tra le 2 e le 3 del mattino, qualche volta un po’ più tardi, prima dell’alba. Ho imparato così a conoscere l’odore della notte a Milano, un misto di umidità, erba e aria stagnante.

Il viaggio: si partiva con due thermos, uno di caffè per i genitori e uno, più grande e largo, di polpette per tutta la famiglia. Poi pesche e pomodori, pane a fette, damigiana termica da 5 litri gialla e bianca che poi ci avrebbe accompagnato al mare ogni giorno. Di solito, quando si arrivava in Calabria era d’obbligo una sosta a Spezzano Albanese per riempirla con l’acqua buona. Ai bambini era concesso un supplemento di patatine Pai, gomme del Ponte, tavoletta di cioccolata e una buona scorta di fumetti Topolino. Il tutto veniva consumato entro le prime due ore di viaggio e poi iniziavano i litigi. Le soste ai distributori di benzina della Esso “metti un tigre nel motore” erano imprescindibili. L’odore della benzina, le code ai bagni, gli Autogrill Pavesi, un cappuccino con brioche se era ora di colazione, i giochi colorati e il cibo in abbondanza che, anno dopo anno, sembravano sempre uguali. La prima meta era Bologna, ci volevano dalle 2 alle 4 ore a seconda dell’ora e del giorno di partenza del primo fine settimana di agosto. Poi bisognava scegliere se proseguire sull’Autostrada del Sole, una vera avventura, o prendere l’Adriatica. Posso dire di aver visto quasi nascere e crescere le due principali reti autostradali d’Italia. Gli Appennini erano tutto un “Sali, Sali” e “Scendi, Scendi”, uno dei miei primi viaggi durò quasi 3 giorni, la macchina era una Prinz azzurra e ancora potevo stendermi da sola sul sedile posteriore e ronfare per quasi tutto il viaggio o giocare con la mia bambola Susanna e il bambolotto Mario, calciatore dell’Inter con la classica maglia a righe nerazzurre (a proposito, la nuova maglia pitonata, ma a chi è venuta in mente?). E poi i raccordi anulari di Roma e Napoli, la Basilicata, Lagonegro – che è davvero un lago scuro – il monte Pollino e poi Calabria e odore di gaddruzzo, cioè galletto, come diceva papà.

L’arrivo: i parenti erano tutti lì che ci aspettavano, io correvo subito dalla nonna. “Nonna, nonna! Dove sei? Siamo arrivati!” e lei mi rispondeva ridendo: “Bella!” era così che mi chiamava insieme a bell’i nanna, Ninni e Titti, si proprio come il canarino di gatto Silvestro che adoravo. E poi la cuginetta Maria, detta Mariuccia, la mia gemella e complice di tutte quelle estati. E tutti gli altri zii e zie, fratelli e sorella di papà, con i miei cuginetti e i cugini di papà e sorelle e fratello della nonna. Quanti eravamo? Mal contati direi almeno in 70. Da non crederci, davvero. E l’estate era davvero solo quella calabrese, perché luglio era il prologo al grande viaggio e settembre il mese della nostalgia dolce, che si stemperava solo con l’inizio della scuola.

La vacanza: qua e là ne ho già scritto nelle Cronache, oggi dico solo che la vacanza era sinonimo di felicità. Una felicità fatta di mare, e poi dei boschi di querce, dei fichi, dei mandorli e dei noci, dei campi di grano bruciati, dell’odore del focolare, dei peperoni verdi fritti, dei pomodori dell’orto, del tabacco steso a essiccare, del fieno, del grande oleandro bianco davanti a casa e di quelli rosa verso l’orto, del pergolato di uva fragola, del gattone tigrato e delle galline che razzolavano libere ovunque, del bucato che profumava di sapone di Marsiglia. E il rito della salsa di pomodoro che iniziava all’alba con il lavaggio delle bottiglie e finiva con la bollitura delle stesse, avvolte in sacchi di iuta in un enorme bidone che era stato abbandonato dalla Wermacht tedesca alla fine della guerra. E soprattutto della gioia di essere tutti insieme, di divertirci, di correre a piedi scalzi sulla terra come facevano i cuginetti, di cucinare le pizze nel forno a legna di zio Giacomo, di giocare interminabili partite a Scala 40, Briscola e Scopa d’Assi con i cuginetti Domenico, Luigi e Salvatore. E poi a Zorro/Luigi, di cui io ero la fidanzata – che nella serie non c’era – e il sergente Garcia/Salvatore e il servo muto Bernardo/Mariuccia – non chiedetemi perché, ma ero io che assegnavo le parti, e gli inseguimenti su e giù per la collina dello zio, e le scorribande nel granaio e poi nel pollaio a far scappare le galline e i niani, tacchini. E i fichi tiepidi mangiati appena colti dall’albero, le more dei gelsi, le nespole, merenda squisita gratis a ogni ora. E le mandorle e le noci acerbe che un’estate ci causarono un avvelenamento da tannino con febbre a 40°. E ancora i salti sul lettone di zia Maria, gli arrampicamenti sul baule della camera da letto che era sotto la finestra e saltare giù stando in piedi, così sembrava alto il doppio quel salto. E le colline che ci circondavano e il mare che era di là, oltre, ma sempre presente. Quelle erano vacanze, quella era la gioia del corpo, lo stordimento del sole, la freschezza dell’acqua.

La partenza: significava ore di pianti, abbracci, promesse per l’estate dell’anno prossimo che iniziava già da quel giorno. Si partiva con la macchina con le valigie legate sul portapacchi insieme a cassette di legno con le bottiglie di salsa che dovevano bastare a superare l’inverno, i pomodori freschi, i mazzi di basilico, i peperoni verdi da friggere e quelli secchi rossi da mangiare in inverno con i broccoli e qualche cucchiaiata di scarafuogli, cioè tutto il grasso e la carne del maiale che restavano sul fondo del pentolone dopo avere bollito le ossa. E ancora il pollo fritto con l’aglio, l’origano e le patate avvolti poi nella carta oleata, la pagnotta e le pite, le frese, i pomodori, le cipolle rosse di Tropea, i fichi maturi, le more.

L’arrivo a Milano: l’odore della pianura, il cielo grigiastro all’alba, l’ultimo Autogrill dopo Bologna, il casello di Melegnano, la tangenziale. E la gioia che diventava sogno e desiderio per l’estate che sarebbe arrivata dopo tre stagioni milanesi.

Se potessi fare un viaggio nel tempo è proprio lì che vorrei andare, in quella terra, con quelle persone, con quel sole e quei profumi, a cercare la bambina di campagna che sono stata e di tornare ad arrampicarmi sul gelso da more con Mariuccia e un vaso di Nutella sottratto a zia Maria, che per lei era nonna Maria, che ci spalmammo sulla faccia prima di mangiarla.

 

Oggi è sabato 31 luglio, l’inizio delle vacanze, la fine vera dell’anno che è ancora un anno senza Carnevale, come questa Cronaca calabrese che è la 510.

P.S. del giorno dopo: mio fratello mi ha ricordato che tra le merende del viaggio di andata c’erano anche i biscotti Togo. La memoria ha davvero anche una dimensione collettiva incredibile, per questo 1+1 fa 5.


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