mercoledì 28 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/507. Nell’ombra di una rosa troverai l’uscita

 


Storie dall’arcipelago del tempo/2


Fino a che avremmo avuto cibo e acqua e una certa sicurezza, avremmo potuto continuare a vivere così come avevamo scelto? Ce lo chiedevamo tutti i giorni, era il nostro argomento di conversazione principale e pensavamo di essere stati fortunati a ritrovarci in così tanti nel territorio che un tempo era l’amena località di Bellagio. Proprio sulla biforcazione dei due rami del lago di Como avevamo insediato la nostra comunità. Utilizzammo tutte le case ancora agibili, iniziammo a coltivare i giardini per farne orti, ma cercando di preservare fiori e cespugli che davano grazia al luogo. La fitta rete di canali, fiumiciattoli e stagni era molto pescosa e dopo un primo inverno dove eravamo sopravvissuti grazie al cibo in scatola recuperato dalle case svuotate dai loro abitanti, gli ortaggi e il pesce fresco andarono a costituire la nostra dieta. A tutti mancavano gli agi della vita di “prima”, ma avevamo imparato a non lamentarci, eravamo vivi, eravamo stati in grado di dare vita a una piccola comunità di gente che sentiva e parlava. All’inizio eravamo circa un migliaio, non fu difficile scegliere di organizzarci in una forma di democrazia diretta dove tutti i maggiorenni si esprimevano per alzata di mano. E non fu neanche difficile scegliere le nostre guide, i nostri “portavoce”, come suggerì qualcuno che aveva studiato antropologia e le popolazioni della foresta amazzonica. Certo, non potevamo poetizzare quanto ci stava accadendo, ma eravamo vivi e in buona salute. Molti tra noi erano sopravvissuti a una delle tante pandemie che avevano colpito il pianeta, alcuni neanche si erano ammalati. Tra questi, i discendenti di una donna che aveva diciotto anni quando era scoppiata la pandemia di Spagnola nel lontanissimo 1918 e che non si era neanche ammalata, come tutta la sua famiglia, mentre nel paesello dove viveva prima di emigrare a Milano, più di metà della popolazione si era ammalata e non aveva superato la malattia. La donna aveva raccontato a una delle nipoti questa storia e lei aveva fatto altrettanto. Fu dopo averla ascoltata, che decidemmo di raccogliere le testimonianze e i racconti di noi sopravvissuti. La decisione venne presa all’unanimità dopo che il Consiglio dei cinque Portavoce si fu insediato. Era composta da tre donne: Anna, medico chirurgo; Silvia, fito-biologa; Elisabetta, ingegnere e architetto. I due uomini erano Davide, un informatico convertito all’agricoltura ben prima dell’ultima catastrofe, e Giovanni, geologo e ingegnere delle acque. I loro titoli accademici non valevano più nulla, ma l’esperienza e la competenza che avevano maturato nelle loro vite precedenti, nessuno aveva meno di quaranta anni, furono decisive per far diventare la nostra nuova casa un luogo dove poter vivere. A partire dalla bonifica dell’acquitrino fangoso che era diventato il grande lago.

 

Poi arrivò il giorno in cui la Rete smise di funzionare e così smettemmo di angosciarci per eventi su cui non avevamo alcun controllo e di perdere tempo a scrivere arguti commenti sui social che nessuno mai avrebbe letto. Fino a che riuscimmo a far funzionare le auto elettriche con le scorte di energia, i coraggiosi e i forti andavano esplorando il territorio e recuperavano tutto quello che ci poteva servire per vivere: cibo, acqua, vestiti, mobili, medicine. I palazzi in miglior stato diventarono i nostri magazzini gestiti da Raffaella che dirigeva un centro commerciale un tempo, insieme a una dozzina di altre persone che avevano lavorato come commessi. Cercammo, almeno all’inizio, di non dare più valore alla forza, all’età, all’intelligenza, ma trovammo il modo di far sì che a ciascuno fosse data la possibilità di avere ciò di cui aveva bisogno e di dare ciò di cui era capace. Non credo che il sistema funzionasse perché noi fossimo buoni o migliori, funzionava perché eravamo spaventati, perché eravamo quasi tutti ben oltre la trentina. I giovani, gli adolescenti e i bambini non erano che una cinquantina, così come gli anziani. I virus avevano decimato prima gli anziani in ogni ondata, ma poi avevano iniziato a morire anche i bambini e nessun medico o virologo riusciva a capire perché. Per questo tenevamo in grande considerazione questa parte di popolazione e riuscimmo a organizzare anche una scuola aperta a chiunque volesse apprendere. La priorità venne data alle arti manuali, chi sapeva cucinare, cucire, scolpire, assemblare, coltivare, insegnava ai giovani. Tra noi c’era anche una violinista di mezza età che aveva salvato il suo violino durante la grande fuga da Milano. Iniziò a insegnare musica e gli strumenti via via recuperati nelle case e nelle scuole abbandonate, le permisero di avere un discreto numero di allievi.

Tra i grandi vecchi c’era anche un anzianissimo poeta che aveva scritto centinaia di poesie e i cui libri avevamo trovato nella biblioteca comunale del paese. Aveva confessato di essere proprio lui dopo che, durante une delle serate dedicate alle arti, uno dei ragazzi aveva letto tutto uno dei suoi libri. Quando il ragazzo stava per leggere le ultime poesie, il vecchio poeta si era alzato e ne aveva recitata una guardandoci a turno:

 

 

Fuga

 

Quando sei nel labirinto

il filo della fuga si aggroviglia

ma nell’ombra di una rosa

troverai l’uscita.

 

 

Noi, non solo eravamo nel labirinto, noi eravamo il labirinto stesso. Bisognava solo capire a quale rosa si riferisse e in quale ombra dovevamo cercare l’uscita. Ma quelli che arrivavano da un altro tempo la trovarono prima di noi.

 

 

Un altro mondo sta emergendo, lo lascio affiorare, lascio che prenda casa in queste Cronache e che mi guidi in uno degli altrove dove la mia immaginazione si nutre, pesce e mare allo stesso tempo. Ringrazio Danilo Bramati per avermi fatto utilizzare una delle sue poesie della raccolta Una ruggine nel sangue, che uscirà subito dopo l’estate.

Oggi è mercoledì 28 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 507 è ancora smarrita nel giardino delle rose.

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